IRENE NEMIROVSKY
“L’AFFARE KURILOV”
ADELPHI, MILANO, (1933), 2009, pp. 192
Questa domenica, in cui la guerra continua sospesa tra minacce nucleari e notizie di trattative subito smentite, vorrei parlare di questo romanzo, con cui l’autrice, si cimenta con un argomento decisivo per lei e per la sua biografia, sotto uno specifico angolo di osservazione: la rivoluzione russa.
Della biografia dell’autrice possiamo dire che era di religione ebraica; a lungo si è discusso del suo “antisemitismo”, cioè della critica feroce che rivolge contro i suoi correligionari in molti romanzi, fino alla conversione formale al cattolicesimo che non la sottrasse al campo di sterminio, una volta che i tedeschi occuparono a Francia. L’altro elemento autobiografico, in estrema sintesi, che – a mio avviso – gioca un ruolo centrale nel romanzo in esame, è la fuga di Irène con la sua famiglia d’origine dalla Russia per sottrarsi alla rivoluzione bolscevica (1918, l’anno dopo la rivoluzione). La famiglia era originaria di Kiev, trasferita a San Pietroburgo agli inizi del Novecento. Il padre era un ricco banchiere, che riuscì a scappare in Francia salvando gran parte della propria ricchezza. “L’affaire Kurilov” è l’unico romanzo in cui l’autrice affronta direttamente il tema della rivoluzione. Lo fa con uno sguardo “doppio”: uno molto attento ai personaggi e alla loro psicologia, che come al solito è molto moderna; un altro al giudizio ideologico sulla rivoluzione, che rimane “borghese” e sostanzialmente negativo, nel senso di essere generico e ispirato ai luoghi comuni, al di là del giudizio politico in senso stretto. Di fatto l’esito non è brillante e infatti il romanzo non è considerato dalla critica tra i suoi migliori.
Si presenta come un “memoir”, un libro di memorie, ma del tutto inventato. Il racconto si apre con l’incontro di Lev M., detto “Lev il bolscevico”, rifugiato a Nizza per motivi non chiari dopo aver partecipato alla rivoluzione di ottobre, e il poliziotto zarista, che si incaricò di lui all’epoca in cui gli venne affidata la missione di “liquidare” il ministro dell’istruzione zarista Valerian Kurilov, detto “il Pescecane” per la sua ferocia. Dopo questo incontro e l’annuncio della morte di Lev, viene introdotto il ritrovamento della cartella sull’ “Affare Kurilov”, alcune decine di pagine dattiloscritte con un intento autobiografico. Apprendiamo che l’incarico a Lev è dato dal Comitato rivoluzionario svizzero del “partito terrorista”, che lo ha allevato quando ha perduto i genitori,entrambi membri della stessa formazione.
E’ – a mio avviso – il primo elemento deteriore: la scelta di parlare della “rivoluzione” a partire da un’azione terrorista, che come è noto era estranea alla strategia del partito bolscevico. Lenin l’aveva duramente criticata. Tale scelta permette alla Némirovsky un approccio semplificato al problema e la assolve sotto il profilo narrativo dall’impresa di parlare realisticamente di un processo complesso come quello della rivoluzione russa. L’epoca dei fatti è l’inizio del Novecento: siamo 15 anni prima della presa del Palazzo d’inverno. Ciò non la esime, però, dal dare un giudizio tranchant. Lev ricorda il suo periodo da commissario bolscevico addetto ad esecuzioni sommarie: “Che mattatoio le rivoluzioni! Ne vale la pena ?… Non c’è niente che valga la pena, a dire il vero, e la vita meno di tutto il resto”. E’ la vecchia polemica borghese per cui le rivoluzioni usano la violenza senza andare per il sottile, viceversa quella violenza, come quella della guerra, è giustificata per le rivoluzioni borghesi.
Dal punto di vista narrativo il periodo bolscevico avrebbe introdotto qualche difficoltà per rendere la complessità del tema. Il racconto, invece, tratta di un attentato e quindi dal punto di vista narrativo è la messa in scena di un dramma a due: l’attentatore e la vittima. L’azione semplificata ha fatto sì che alcuni lettori scambiassero il meccanismo narrativo del romanzo per quello semplificato di un thriller. Viceversa non siamo dentro un romanzo d’azione con l’organizzazione dell’attentato come ci si potrebbe aspettare, ma nello scavo psicologico dei due antagonisti (Lev M. e Kurilov). Per ottenere tale risultato l’autrice predispone un meccanismo narrativo poco realistico: l’attentato implica che i due deuteragonisti non debbano conoscersi più di tanto e che tutto si riduca al lancio di una bomba in pubblico atto a creare “il terrore”, cosa che nel romanzo è ridotto a poche pagine.
Nel romanzo Lev viene introdotto nella casa di Kurilov sotto le mentite spoglie del giovane medico che lo deve assistere nella sua malattia. Questo permette l’istaurarsi di un rapporto e di una risonanza emotiva tra i due, di cui viene descritto il rapporto per alcuni mesi. Ciò introduce più sottilmente il punto di vista della Némirovsky. Innanzitutto i due si somigliano per il fatto di essere malati: Kurilov ha pochi mesi di vita per un cancro del fegato, che i medici non gli rivelano, ma di cui è consapevole e a cui fa fronte stoicamente pur di adempiere il proprio dovere; Lev è malato di tisi. Si stabilisce tra loro una relazione ambigua di vicinanza, che evidentemente rientra nell’obbiettivo narrativo della Némirovsky. Ad un certo punto Kurilov ha dei sospetti su Lev, sui cui soprassiede. Lev lo spiega: “forse provava nei miei riguardi qualcosa di simile a ciò che provavo io nei suoi … una sorta di comprensione, di curiosità, una fratellanza oscura , mista a pietà, disprezzo, che ne so? “. Lev ha potuto osservare il tenero legame di Kurilov per la sua seconda moglie, una ex-cocotte, per il quale mette a rischio la stessa carriera di ministro, dato che lo zar e la sua corte non approvano un matrimonio così poco degno dal punto di vista sociale.
Il personaggio di Kurilov viene presentato con un’ambiguità modernista: è insieme il feroce “pescecane” che fa sparare sugli studenti rivoluzionari e anche il tenero marito. Così i sentimenti dell’avversario verso di lui sono insieme di odio e di simpatia. La tecnica psicologica, in cui la Némirovsky è maestra, viene piegata all’intento ideologico. Poche pagine prima Lev ricorda il proprio ruolo di commissario della rivoluzione. Pensa all’omicidio di Kurilov e dice: “ho mandato a morte uomini che capivo al primo sguardo, come fratelli, come me stesso …”. Ricordiamo che la fratellanza è il principio universale, mai realizzato, dalla rivoluzione borghese per eccellenza, quella francese, passato e non realizzato neppure da quella proletaria. In ultima istanza l’autrice rileva il significato secondo del romanzo: le rivoluzioni sono un mattatoio fratricida.
Ciò permette all’estensore della quarta di copertina del libro di attribuirle “una inconsolabile lucidità sui destini del genere umano e sulla sua derisoria pretesa di cambiare il corso della storia”, come se la storia non fosse frutto delle azioni umane collettive (perché questo è il nocciolo dei processi sociali che determinano il corso della storia). Siamo di fronte ad un’allegoria negativa, che accusa le rivoluzioni novecentesche. Non emerge nel romanzo alcun ritorno libidico positivo del rimosso inconscio, se escludiamo il legame tra Kurilov e la ex-cocotte e soprattutto nel bacio “finto” tra Lev e la sua complice Fanny per sfuggire alla polizia, quando Lev dice: “per la prima volta, vidi brillare in quegli occhi crudeli una lacrima”. Come al solito lascerò alla curiosità del lettore la soluzione finale dell’intreccio. Va riconosciuta alla scrittrice l’onestà intellettuale di credere nella fratellanza umana fino all’olocausto della propria vita, ficcandosi in bocca ai nazisti con un comportamento di fiducia borghese al limite dell’ingenuità.