PRIMO LEVI
“IL SISTEMA PERIODICO”
EINAUDI, TORINO, (1975) 2014, pp. 243
Questa nuova domenica di guerra, mentre la pace si allontana e il nostro paese precipita in una nuova campagna elettorale anticipata parliamo di un libro che è stato valutato nel 2006 dalla Royal Institution del Regno Unito come il miglior libro di scienza mai scritto e che è contemporaneamente una notevole opera letteraria.
E’ il quinto libro pubblicato da Levi dopo il famossissimo “Se questo è un uomo” (1947) sulla sua esperienza drammatica di sopravvissuto al campo di sterminio di Auschwitz, seguito da “La tregua” (1963) sul racconto del ritorno a casa dopo la liberazione dal lager. Seguono due raccolte di racconti (“Storie naturali”, 1966, e “Vizio di forma”, 1971). “Il sistema periodico” è, quindi, la terza raccolta di racconti e segna il passaggio dalla fase in cui Levi lavora come chimico in fabbrica e scrive, alla fase in cui si pensiona e si dedica integralmente alla scrittura (1975).
Il libro sta a ponte tra tante cose, non solo sulla svolta autobiografica di cui si è detto sopra, ma anche tra la scienza e la letteratura, pur all’interno di una cornice autobiografica. Dunque si presenta come appartenente a più generi letterari. La stessa struttura dei racconti si presenta specifica: sono più “storie” che racconti come siamo abituati a pensare, cioè scritture brevi con un colpo di scena finale che illumina il resto.
Queste storie hanno molto spesso un andamento piano e quasi didascalico, anche se sono piene di passaggi arguti, ironici e a tratti umoristici. La struttura stessa della raccolta è ibrida: si tratta di ventuno racconti ciascuno dei quali prende titolo da un elemento del sistema periodico, cioè da un dato forte della scienza, in cui il chimico russo Mendeleev diede ordine agli elementi in base al loro peso atomico, che corrispose poi alla sequenza della loro struttura chimico-fisica, una classificazione successivamente confermata dal modello atomico, scoperto dopo, come è accaduto ad altre classificazioni scientifiche (ad es. a quella delle specie viventi di Linneo, poi confermata dalla teoria delle specie di Darwin). Il titolo dei racconti corrisponde al contenuto. In sostanza siamo di fronte ad una struttura ibrida e quindi ad una tipica allegoria, tra le più moderne. La quarta di copertina recita: “Un ‘De rerum natura’ metafora dell’esistenza”: direi una metafora continuata in ventuno episodi, ancora una volta un’allegoria.
Ci vorrebbe lo spazio di un saggio intero per parlare di tutte le emergenze della raccolta. Ne ho contate 97 (sono le eredi delle vecchie “orecchie” delle pagine che attraggono il mio interesse). Mi limiterò a considerarne solo due, tra loro connesse. La prima riguarda il rapporto dello scienziato e dell’uomo con la materia, definita “Materia-Mater”, sottolineandone implicitamente la stessa etimologia. Essa è vista come una severa maestra, che costringe a scelte chiare e ragionevoli: “era ogni volta una scelta, un deliberare; un’impresa matura e responsabile, a cui il fascismo non ci aveva preparati”. Qui e anche altrove è indicata l’origine della scelta antifascista, che portò Levi ad aderire alla lotta partigiana da cui conseguì il lager.
Ciò fa dire a Philip Roth nell’intervista che chiude il libro che egli è sopravvissuto al lager, ad un “gigantesco esperimento biologico e sociale” dei nazisti, che è in corpore vili, perché ha come cavie gli esseri umani. Per Roth nell’opera di Levi “non sono inscindibili soltanto il sopravvissuto e lo scienziato, ma anche lo scrittore e lo scienziato”. Nella sua risposta Levi conferma: “non c’è contraddizione fra l’essere chimico e l’essere scrittore: c’è anzi un reciproco rinforzo”. Il suo rapporto con la chimica, la scienza e la scrittura è materialistico, dove la materia, la natura delle cose, è profondamente materna.
C’è poi un secondo tema, che è intrecciato a questo e rappresenta un potente ritorno del rimosso. C’è un elemento autobiografico: Levi parla nella storia “Fosforo” di una sua “vecchia angoscia” suscitata nel rapporto con una collega, Giulia, che è chiarita poche pagine dopo: “la mia incapacità di avvicinare una donna era una condanna senza appello”. Nell’intervista con Roth è ancora più esplicito: “la mia timidezza sessuale di allora … era in buona parte condizionata dalle leggi razziali; … alcuni nostri compagni di scuola ‘ariani’ ci deridevano, dicevano che la circoncisione non era altro … che una castrazione, e noi, almeno a livello inconscio, tendevamo a crederci”.
Vi è un’ulteriore conferma in un passaggio della storia “Azoto”, quando a proposito dell’allossana, un composto organico contenente azoto, base di un rossetto, Levi scrive: “tu chimico interlocutorio, così amante delle digressioni, te ne torni alla tua carreggiata, che è quella di fornicare con la materia [dunque con la madre] allo scopo di provvedere al tuo sostentamento”. Nella stessa pagina campeggia curiosamente l’unica figura dell’intero volume: la formula dell’allossana, definita “una struttura graziosa … [che] fa pensare a qualcosa di solido, di stabile e ben connesso”. È una struttura circolare, tonda, quindi molto femminile e materna.
Di questa allegoria molto moderna stiamo parlando con due corni in conflitto tra loro, quello dell’uomo che studia, penetra la natura, fornica con lei e la feconda, in una logica “contadina” molto antica, che ricorre in altri autori (ad es. Steinbeck, “Al Dio sconosciuto”, 1933; Camilleri, “La stagione della caccia”, 1992), contrapposto a quello distruttivo, in sostanza nazista e industrialista, che vuol soggiogare la natura e l’uomo al suo interno in una volontà di potenza, la quale non può portare altro che all’annichilimento della vita. Se vogliamo usare un’allegoria freudiana, è la lotta tra Eros e Thanatos.