JOSE’ SARAMAGO
“ALABARDE ALABARDE”
FELTRINELLI EDITORE, MILANO, 2014, pp. 112
L’isteria bellicista in corso con tutti che si prodigano con tifo da stadio, partiti di governo e di opposizione (salvo qualche piccola eccezione), per mandare armi nell’ultimo teatro di guerra con l’idea che questo possa facilitare il processo di pace, mi ha fatto venire in mente questo libro uscito postumo dell’autore contemporaneo che ho amato di più, Josè Saramago, premio Nobel per la letteratura nel 1998 e purtroppo scomparso nel 2010, mentre stava scrivendo questo romanzo, di cui ci sono pervenuti solo i primi tre capitoli completi. Ne abbiamo parlato qui già un paio di volte (“Caino”, il 31.1.2021; “Cecità”, l’11.4.2021), apprezzandone la lungimiranza e l’arte.
Dal punto di vista editoriale il libro è un’astuta operazione: permette agli appassionati di Saramago di pensare che qualcosa di lui è avanzato alla morte, oltre a tutti gli altri libri noti. Già c’era un degno libro postumo, “Lucernario”, uscito nel 2012, che aveva il merito di far conoscere il romanzo di esordio di Saramago, rimasto sconosciuto perché la censura del dittatore fascista Salazar lo aveva vietato negli anni Cinquanta del secolo scorso. Ancora una volta non sono riuscito a finire lo scritto di Roberto Saviano che funge da post-fazione, come mi è capitato fin da “Gomorra”. La capacità di farsi bello con le penne degli altri è molto diffusa oggi. In realtà il libro non c’è, ma delle 50 pagine che ci sono pervenute si può capire che aveva tutte le potenzialità per essere un buon romanzo. Ci sono i personaggi: l’impiegato della fabbrica d’armi, Artur Paz Semedo, appassionato di film di guerra e aspirante a far carriera come dirigente del reparto che produce artiglieria pesante (forse “Paz” non è un nome casuale), e la sua moglie separata, Felicia (altro nome non casuale), pacifista, che non è riuscita più a conciliare la propria convinzione e il matrimonio con un aspirante dirigente di una fabbrica di armi. Ella guida ancora la vita del protagonista, anche nel dare il là alla ricerca di cui parla il racconto. È un altro personaggio femminile a cui Saramago affida una visione più innovativa del futuro. Tra tutte ricordiamo la moglie dell’oculista in “Cecità” (1995).
C’è la trama: la ricerca sulla vendita di armi ai fascisti dalla fabbrica in cui lavora il protagonista e la storia dei due coniugi separati dentro un pezzo di storia portoghese. Come racconta nelle note del suo diario Saramago parte dallo spunto di un libro di Malraux, “L’Espoir”, cioè la speranza, in cui è contenuto un brevissimo riferimento a “certi operai di Milano fucilati per aver sabotato gli obici” e una sua ”antica preoccupazione (perché non c’è mai stato uno sciopero in una fabbrica o armi)”.
La ricerca che la moglie separata suggerisce ad Artur è cercare negli archivi aziendali se nella guerra civile spagnola la fabbrica portoghese ha fornito le armi ai fascisti. C’è anche un significato etico, un significato secondo: la constatazione delle “ragioni” della guerra contro la ricerca della pace. Sicuramente la fabbricazione delle armi favorisce le ragioni della guerra rispetto a quelle della pace. Lo sapeva già prima della nascita di Cristo, Tibullo, che iniziava una famosa elegia in cui cantava la pace della vita agreste, di cui ricordo ancora la scansione metrica, con il verso: “qui fuit horrendos qui primus protulit enses”, tradotto: “chi fu il primo che inventò le orride armi”. E’ una verità lapalissiana, che i bellicisti ignorano: senza armi niente guerre. La semplice verità di Tibullo è nota anche ai più moderni storici ed economisti: la corsa al riarmo produce sicuramente la guerra, non fosse altro che per svuotare gli arsenali dalle armi più vecchie per riempirli di quelle nuove. È la logica del capitalismo da sempre: si distrugge per poter ricostruire.
È quanto è successo con la recente crisi economica durata un decennio, i cui effetti disastrosi sono stati “sollevati” dalla crisi pandemica. Questo è brutalmente il destino dell’Ucraina: le parti in guerra si contendono oggi il territorio e domani si contenderanno i proventi della ricostruzione e le materie prime di cui è ricco il suo sottosuolo. C’erano, dunque, tutti gli ingredienti, da cui Saramago avrebbe tratto sicuramente un buon romanzo, all’altezza dei suoi romanzi più grandi. Purtroppo nel 2010 è morto e a noi è rimasto solo questo. Non si può che rimpiangerlo e imprecare contro il destino mortale degli umani. Sappiamo però dalle sue note come il romanzo avrebbe dovuto concludersi: con la frase truce “vai a cagare” messa in bocca alla moglie pacifista. Forse nell’ennesima lite contro il marito desideroso di far carriera con la fatturazione delle armi pesanti? o forse in un finale più lieto contro qualche pescecane di guerra arricchito dalla vendita degli armamenti? Questo non possiamo saperlo, ma mi fa piacere fare mia la battuta finale di Saramago nei confronti dei produttori di armi e dei loro sostenitori.