GIULIA CAMINITO
“L’ACQUA DEL LAGO NON E’ MAI DOLCE”
BOMPIANI, MILANO, 2021, pp. 299
Il romanzo ha vinto la 50^ edizione del Campiello, oltre ad essere stato finalista dello Strega. È la storia di una famiglia sottoproletaria, che da Roma è costretta ad emigrare in una cittadina sul lago di Bracciano, che dà titolo al libro ed è la metafora prolungata che informa tutto il libro e forse ne rappresenta il significato secondo.
L’autrice è giovane (34 anni) ed è laureata in filosofia politica, come ci informa il risvolto di copertina. È sua anche l’immagine di copertina: una ragazza in sottoveste con i piedi in un’acqua limacciosa che ha invaso la sua stanza, come lei immagina verso la fine del libro (p. 287). Il suo volto nel solito risvolto ha un’aria dura, come quello della voce narrante, con un’espressione vagamente “borgatara”. Vi è in tutto il libro un’ambientazione e un piglio “da periferia”, che ricorda in qualche modo un’atmosfera pasoliniana (“Ragazzi di vita”, 1955).
Nella lunga nota finale la Caminito scrive chiaro: “questa non è una biografia, né una autobiografia, né un’autofiction, questa è una storia che ha ingoiato frammenti di tante vite per provare a farne una narrazione, il racconto degli anni in cui sono cresciuta”. Così si spiega l’aria autobiografica che vi si respira con uno stile semplificato ed elementare, tutto al tempo presente, che non è per niente accattivante, occorre abituarsi. Ancora una volta questo romanzo è ascrivibile ad un genere ibrido, a cui i lettori di queste recensioni sono ormai abituati, a ponte tra due sottogeneri del romanzo: quello sociale e quello di formazione.
Racconta la storia di Gaia, che parla in prima persona (il nome è citato solo una volta, come firma della lettera che scrive alla sua migliore amica morta), della sua famiglia disadattata e della cittadina sul lago. Il “capitano” della famiglia è Antonia, “la rossa”, a cui Gaia assomiglia per i capelli rossi e le lentiggini: “Antonia è la stessa madre della mia infanzia, quella che regge da sola le mura nel crollo, che ci porta fuori dalla casa in fiamme”. È una donna dura con un senso etico della giustizia disposta a tutto per la sua famiglia, che mantiene da sola lavorando al nero come donna delle pulizie. Il marito è rimasto paralizzato cadendo da un’impalcatura dove lavorava come muratore non assicurato, ridotto in sedia a rotelle. Il fratello maggiore, Mariano, è nato da una precedente relazione di Antonia con un uomo condannato per omicidio.
Gaia è la seconda figlia, nata della coppia, nella sua durezza e violenza assomiglia alla madre, non solo fisicamente, e si avvia ad una adolescenza ribelle anche contro di lei. Poi ci sono i gemelli, allevati in uno scatolone di cartone, abituati ad obbedire alla madre. Sono poverissimi, vivono in un seminterrato di venti metri quadrati senza televisore e senza alcun elettrodomestico, eccetto la radio. La madre ha pulito dalle solite siringhe un piccolo spiazzo di cemento davanti casa per far giocare i bambini. Esasperata, Antonia a furia di urlare riesce a farsi assegnare dal comune in custodia un appartamento in un palazzo “bene” di Roma, dove nessuno li vuole e dove Antonia inscena una protesta in cui si mette in mutande per imporre che una giovane inquilina in sedia a rotelle possa prendere il sole in cortile. Poi riesce a ottenere da un’altra donna di cambiare illegalmente la casa con una più accettabile per loro in riva al lago.
Qui Gaia cresce, costretta al pendolarismo per studiare in un liceo classico romano con il mandato materno di studiare per emergere socialmente. Gaia lo fa alla lettera conquistando a pieni voti prima la maturità e poi la laurea in filosofia, ma con un sabotaggio interno del mandato materno trascura gli esami per l’insegnamento, per cui finisce a fare le pulizie come la madre.
Gaia si scontra con tutti: con la prof che le consiglia di andare a lavorare perché a lei studiare non serve, con un compagno di scuola che la bullizza e a cui lei per vendetta spaccherà una rotula. Ha due amiche, di cui una che le soffia un fidanzatino e poi si suicida per sfuggire ad un giro di foto pornografiche, mentre Gaia rimane indifferente. Un altro fidanzatino la tratta come un oggetto sessuale tenendola fuori dal resto della sua vita. Lei si vendica aiutando alcuni ragazzi di strada a rubare a casa di lui. Ci ricava l’unico cellulare della sua vita.
All’università troverà un’altra amica, che le porta via il fidanzato e che Gaia solo per caso non uccide annegandola nel lago. L’unico segnale di vittoria è quando al tirassegno, senza aver nessuna esperienza di tiro, centra trenta lattine di seguito e porta a casa un orso gigante di peluche tutto rosa, che Mariano l’aiuta a sistemare nella camera, che essi dividono separati solo da un lenzuolo appeso a una corda. Mariano si sta facendo una coscienza politica e la madre lo caccia di casa, mandandolo a stare ad Ostia dalla propria madre.
Invece Mariano fa l’intervento risolutivo, quando Antonia deve rientrare nella casa di Roma perché l’altra donna, con cui aveva fatto lo scambio delle case, non aveva mantenuto i patti. La famiglia vuol ritornare alla prima casa, ma solo Mariano con i compagni dei centri sociali riesce ad aprire la porta inchiodata dell’appartamento e porta il padre paralizzato a braccia fino su. Si ricostruisce l’unità tra il padre paralizzato e il figlio che ha adottato: Mariano provvede a ripristinare la casa vandalizzata. La voce narrante commenta: “questo fanno i figli, ordinano il mondo e il futuro”. Per me è stato il passaggio più emozionante del libro con le parole successive, che forse chiariscono la metafora del lago: “adesso sento che al centro del petto s’è aperto un cratere, dove una volta era stato un vulcano, chi può dirlo, nei secoli pioverà e alla fine qualcuno chiamerà lago quello che prima era solo un buco, il fantasma di qualcosa che s’è spento”.
Il lettore non si faccia illusioni: il comune ha rubato l’acqua del lago per alimentare l’acquedotto, “l’acqua del lago amara e perfetta”. Lascio come al solito l’agnizione finale alla curiosità del lettore. Gaia ritorna sui propri passi e riesce a tuffarsi nel lago, dove si nasconde il presepe, che nessuno ha mai visto, ma che si dice che esista. Quindi non c’è un lieto fine, forse solo un’amara speranza che l’autrice consegna alla nota finale, quindi una speranza posticcia appiccicata lì a giochi fatti.
Qual è, allora, il significato secondo di tutta questa storia brutta, sporca e violenta? C’è l’emersione potente di un inconscio ostile e ribelle, una fame d’amore rimasta insaziabile. Nel lago sono stati messi due cigni da alcuni stranieri venuti ad abitare sulle sue rive, che i pescatori si sono mangiati arrosto. Dice Gaia: “Io sono stata un cigno, mi hanno portata da fuori, mi sono voluta accomodare a forza, e poi ho molestato, scalciato e fatto bagarre anche contro chi s’avvicinava con il suo tozzo di pane duro, la sua elemosina d’amore”. Il vulcano della rabbia si può spegnere e riempirsi d’acqua con i secoli, ma niente di più. È l’allegoria di un adolescente tormentato e senza speranze, come il mondo moderno che gli abbiamo costruito intorno, oggi compresa la guerra.