PHILIP ROTH
“L’ANIMALE MORENTE”
EINAUDI, TORINO, (2001) 2013, pp. 113
Ho scelto a scatola chiusa, senza neppure leggere la quarta di copertina, perché è corto (e a me piacciono tantissimo i libri corti, sulla misura “magica” delle 100 pagine) e perché l’aveva scritto Roth, uno dei più grandi autori americani contemporanei. È un romanzo breve, che per le prime quaranta pagine sembra essere del genere erotico, ma limitarsi a questa prima classificazione di genere letterario sarebbe fuorviante. Racconta la passionaccia di un professore universitario di 62 anni per una giovane allieva di origine cubana, di una bellezza statuaria, “così classicamente bella e sempre così controllata”. Il protagonista, David Kepesh, lo è già stato in due altri romanzi di Roth: “Il seno” (1972), del quale ha una passione quasi feticista, e il successivo “Il professore del desiderio” (1977), qui esplicitamente citato. Egli non nega la sua “lussuria” e la sua passione per il sesso, a cui non sfugge a suo dire alcun uomo e a cui sembra ridurre “la verità dell’amore” e la sua volontà di “dominio”, dunque una sosrta di diminuzione materialistica dei sentimenti. Illustra la sua tecnica di seduzione delle giovani allieve, ma rigorosamente fuori del corso che tiene all’università, finché irrompe questa ragazza: “lei venne nel mio letto, Consuela Castillo, la super classica femmina fertile della nostra specie di mammiferi”. Il nome della co-protagonista femminile è significativo: il nome è allusivo della sua funzione consolatoria dello “strazio di essere vecchio” del protagonista; il cognome mi sembra far riferimento alla questione del “dominio”. La famiglia di Consuela è di esuli cubani, che hanno lottato per affermarsi socialmente, delle cui convenzioni sociali sembra essere prigioniera. Nel momento in cui David le impone un rapporto orale “brutale” e Consuela alla fine gli mostra i denti, si impone il rapporto di dominio e l’inevitabile ossessione della gelosia. “La ragazza istintuale che spezza non soltanto il recipiente della propria vanità, ma la schiavitù della sua accogliente famiglia cubana. Questo fu il vero inizio del suo dominio: il dominio cui l’aveva iniziata il mio dominio”. E’ la storia sado-masochista di moltissime coppie. Questa lettura, a cui Roth abilmente sembra condurci, appare riduttiva perché introduce alla seconda parte del romanzo, apparentemente una divagazione sulla cultura americana e sul rapporto tra David e il proprio figlio Ken con un finale del tutto sorprendente. Ma andiamo con ordine. Il professore contrappone alle origini della cultura e della nazione americana “i puritani di Plymouth” contro gli allegri fornicatori della “stazione commerciale inglese di Merry Mount”, che se la facevano con “le indiane, che avevano l’abitudine di mettersi carponi e farsi prendere da tergo”. Cita Hawthorne, l’autore de “La lettera scarlatta” (1850): “Tristezza e allegria si contendevano un impero” e fa risalire a questa contraddizione originaria la liberazione sessuale degli anni Settanta. E’ difficile sottrarsi alla comica ironia di questo excursus storico-culturale: “Nella teocrazia puritana eri libero di fare il bene; nella Merry Mount … eri libero: tutto qui”. Degno figlio di questa contraddizione è Ken, nato dal matrimonio di David, prima che si riprendesse la propria libertà sessuale, lasciandolo con la madre ad otto anni. “Ho un figlio di quarantadue anni che mi odia”. Ken vive un matrimonio con bambini regolarmente repressivo, da cui periodicamente scappa con qualche amante e va a cercare il padre, nel cui odio scarica la propria frustrazione. “Ogni volta che Kenny veniva a trovarmi sconvolto, durante l’adolescenza, era sempre per lo stesso motivo. E’ ancora così: qualcosa ha minacciato l’idea che mio figlio ha di se stesso come persona retta e puntigliosa”. Ken ha costruito una propria identità contrapposta a quella del padre, ma nelle difficoltà ricorre al padre, che si presta a fare da scarico. Il padre ha un ruolo catartico: “una volta al mese … viene a purgarsi, alla mia presenza, di ciò che lo avvelena”. E’ il modo in cui il padre si presta a far diventare uomo il figlio: “affronta finalmente il cazzo di tuo padre” è la sua ingiunzione. L’inconscio rimosso emerge in tutta la sua potenza sia nella parte erotica (Consuela) sia nella sua parte aggressiva (Ken) e certe volte essi sono mescolati – come è nella realtà della vita di ciascuno di noi – nella scena del morso e poi quella truce e passionale insieme in cui Consuela appare come una “dea sanguinante”, secondo l’analisi dell’unico amico di David, George, che nel romanzo muore, baciando senza ritegno la moglie che ha tradito tantissime volte. L’ultimo passaggio, che domina l’ultima parte del romanzo e che lascio alla curiosità del lettore, il quale rimarrà stupito dalla tenerezza della conclusione, è il rapporto tra sesso e morte. “Il sesso è anche vendetta sulla morte. Non dimenticartela la morte. Non dimenticartela mai. Sì, anche il sesso ha un potere limitato”. Qui sta la spiegazione del titolo, che è ripreso da alcuni versi di Yeats, che sovvengono al protagonista alla fine di una serie di fantasie che culminano in un orgasmo (è stato detto che l’orgasmo, l’appagamento del piacere, è come il sonno una “piccola morte”): “Consumami il cuore; malato di desiderio / E avvinto a un animale morente / Che non sa cos’è”. Non solo è morente il vecchio professore, ma anche la sua amante, cosa che ci spiega anche il perché generale (non solo sensuale) della scelta di una co-protagonista cubana, che alla fine dice: “Io sono cresciuta in esilio. Per questo ho paura di tutto”. La fine del romanzo non solo permette la grande tenerezza, di cui dicevo, ma il ritorno di Roth alla rappresentazione allegorica della fine del mito americano, quello che è il succo del suo capolavoro, “Pastorale americana” (1997).