FRANCESCO DE SANCTIS
“UN VIAGGIO ELETTORALE”
UNIVERSALE ECONOMICA, MILANO, (1876) 1951, pp. 118
Questa domenica vi propongo di parlare di “questo libricino smilzo” (dalla “Prefazione” di Ettore Tedesco), una pubblicazione antica e rara scritta da un mio conterraneo, un grande della letteratura italiana. È un augurio che le elezioni del Presidente della Repubblica avvenga in un clima di rinnovata onestà repubblicana.
E’ il racconto, scritto con taglio asciutto e giornalistico, da Francesco De Sanctis, grande critico della letteratura, sicuramente il più grande dell’Ottocento, politico, patriota, filosofo, nato nel 1817 a Morra Irpina, che oggi in suo onore si chiama Morra De Sanctis. E’ uno dei tanti paesi abbarbicati sulle nostre montagne a pochi chilometri dal mio. De Sanctis si era battuto per l’unità d’Italia, era stato imprigionato, aveva rischiato la condanna a morte e poi esiliato per aver partecipato ai moti del 1848, quelli che avevano costretto Ferdinando di Borbone a concedere la Costituzione. Più volte eletto al parlamento subalpino sui banchi della sinistra storica, si era battuto per l’unità della sinistra (“storica” e “giovane”), aveva insegnato all’università di Torino e a Zurigo.
Garibaldi lo aveva richiamato nella Napoli liberata nel 1860 e nominato Governatore della Provincia di Avellino e poi direttore dell’istruzione del regno delle due Sicilie, prima dell’unificazione al Regno d’Italia, di cui fu più volte ministro della pubblica istruzione. Nelle elezioni del 1875 è costretto dai suoi concittadini a inerpicarsi per le strade fangose e quasi inesistenti dell’Irpinia per conquistare al ballottaggio il seggio del collegio di Lacedonia e San Severo.
Quasi sessantenne si costringe ad un tour de force per battere i provincialismi e gli egoismi particolari, che hanno sempre funestato questa terra in una drammatica divisione tra le cerchie ristrette dei galantuomini e le classi subalterne. Egli si costringe a conquistare voto su voto contro “i cannaroni”, così chiama con termine dialettale le gole egoistiche degli affamati del potere personale e letteralmente del cibo sottratto ai poveri contadini. Dà un’immagine desolata dell’Irpinia ottocentesca, non molto distante da quella che ho conosciuto nella mia infanzia negli anni Cinquanta del Novecento: “Altra memoria non è in quelle piazze ignude, e sembra che gli uomini vi sieno vissuti in uno stato poco lontano dal selvaggio, che non ha storia e vive di poche e vaghe tradizioni. Guardando per entro l’abitato case cadenti, e mucchi di pietre ancora intatti dove furono case”.
Perché questa terra è da sempre terremotata. De Sanctis vi cerca traccia della propria storia e dei propri compagni: “la mia storia mi appare come una processione di morti … Iti via come il fumo del sigaro”. Incontra una antica fidanzata, che trova sposa e madre, e si complimenta della sua saggezza di non averlo sposato, perché avrebbe fatto la vita dell’esule. Ricorda la sua famiglia e il tributo dato dai De Sanctis alla causa dell’unità d’Italia, fin dai moti anti-borbonici del 1820-21: “in quel triste giorno prendevano la via dell’esilio. Questo è un titolo di nobiltà più moderno, ma non meno rispettabile che di essere nati dagl’Irpini. E pensavo: se ci ha da essere un cimitero distinto, non sia distinzione di classe, ma di merito”. Questo ha voluto dire, per generazioni e anche per me, essere meridionali: prendere la strada dell’emigrazione e dell’esilio e cercare disperatamente di dare una buona immagine di sé contro tutti i pregiudizi e i luoghi comuni.
Nella lingua il grande De Sanctis, che l’italiano come lingua nazionale lo conosceva bene, lo insegnava e aveva cercato di proporlo come lingua unitaria da ministro dell’istruzione, non disdegna di usare il nostro dialetto (come si è visto per il termine pregnante dei “cannaroni”, pronti a vendersi per il boccone migliore), perché per parlare del meridione bisogna usare la nostra lingua “tagliata”. E’ il modo che ho sempre condiviso per applicare il grande criterio desactisiano: “ugual forma, ugual contenuto”, cioè l’unità di forma e contenuto. Egli che passa come pensatore idealista ed hegeliano, contestava il purismo della lingua e l’astrattezza delle idee, era un realista e cercava anche nella forma la materia realmente esistente.
Si tratta di un reportage più che di un libro di narrativa vero e proprio, a cavallo tra il saggio e il racconto di viaggio. È difficile trovarvi l’emergere del rimosso, fatto salvo forse il passaggio malinconico dedicato all’occasione perduta dell’antica fidanzata. Viceversa è potente il ritorno dell’appartenenza sociale ad una comunità relegata ai margini della storia moderna, che, però, ha prodotto il più grande teorico della letteratura italiana dell’Ottocento.