ROSELLA POSTORINO
“LE ASSAGGIATRICI”
FELTRINELLI, MILANO, 2018, pp. 287
A ridosso del 25 novembre, giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, provo a dare voce ad un’autrice che racconta una vicenda tutta al femminile.
Massimo Recalcati, notissimo psicoanalista, nella presentazione milanese del libro con l’autrice l’ha definita sottilmente non un’opera di narrativa, ma di letteratura, una sottile distinzione che ignoravo. La narrativa si limiterebbe a raccontare la storia, la letteratura va oltre, si pone domande di ordine generale o per stare alla successiva definizione di Recalcati di tipo “sovrastorico”. Credevo che tutti i romanzi puntassero a questo, ad un storia aperta ad un “significato secondo”, ad una morale. È discutibile se tale significato sia sovra storico.
Il libro ha vinto numerosi premi, in particolare l’edizione 2018 del Campiello e si misura a suo modo con la storia del nazismo. L’autrice è una donna quarantenne, che viene dalla “scuderia” meritoria dell’editor di “Stile libero”, recentemente scomparso, Severino Cesari. Quindi il romanzo ha tutte le credenziali in regola. Come spiega l’autrice lo spunto nasce dalla storia di una delle donne, che dal 1943 presso la “tana del lupo” di Hitler ha “lavorato” coattivamente ad assaggiare i pasti che il Fuhrer avrebbe consumato. Ma si tratta solo di un’ispirazione, il resto è fiction, perché – nonostante le sue ricerche – la Postorino ci informa nella nota finale che la donna, Margot Wolk, la quale ha reso pubblica la sua storia solo a 96 anni nel 2014, è morta prima che lei potesse “parlarle e raccontare la sua storia”. Quindi il romanzo è pura invenzione, in cui Rosa Sauer, la protagonista, rivela una faccia della scrittrice (Rosella, Rosa per l’anagrafe), quella della fiducia, tema centrale della sua analisi come nella citata intervista ha confessato a Recalcati,.
In breve Rosa Sauer, sfuggita al bombardamento di Berlino dove ha perso la madre, si rifugia nel villaggio della Prussia Orientale vicino alla “tana del lupo”, presso i genitori di Gregor, il marito soldato disperso sul fronte russo. Qui è costretta a servire Hitler, pur non essendo nazista, e si adatta per obbligo e anche per fame al mestiere di assaggiatrice. Il suo corpo funge da cavia per salvare quello di Hitler. Mi sembra l’allegoria moderna del rapporto tra il “popolo” tedesco e il suo capo. I tedeschi si sono adattati a fare da cavia all’esperimento paranoico di Hitler, cosa che non li assolve e neppure li giustifica, anzi li corresposabilizza.
Durante questo lavoro, Rosa ha una relazione con il tenente delle SS, Zigler, che è una specie di imboscato, da cui dipende la caserma delle SS a difesa della “tana del lupo”. Anche a questa relazione segreta, che è rappresentata molto corporea, Rosa si adatta: “Eravamo donne senza uomini…Tutte avevamo bisogno di essere desiderate, perché il desiderio degli uomini ti fa esistere di più”. Intorno a questa storia principale si agita il gruppo delle altre nove assaggiatrici, con i loro odi e le loro alleanze, compresa quella conflittuale della protagonista con la coraggiosa ragazza ebrea, che quasi riesce a sfuggire al lager facendo l’assaggiatrice per Hitler. Dunque nell’allegoria c’è anche un sotterraneo legame tra l’ebrea e il suo persecutore.
L’interpretazione accreditata dall’autrice e fornita da Recalcati è che per assaggiare il cibo avvelenato del mondo occorre fidarsi di qualcuno e questa fiducia – sempre dubbiosa e ambigua – è il legame d’amore (è la storia della mela avvelenata). L’ambiguità, che tiene l’essere umano sospeso tra il bene e il male, è evidente. La forza della storia sta proprio in questo. Secondo me c’è una forza materiale più profonda, che corre sotto la visione neo-platonica e idealizzante del lacaniano Recalcati, che è propria del corpo umano, disponibile a tutto, a qualsiasi adattamento per sopravvivere.
Il corpo umano è di per sé ambiguo, soprattutto nelle sue parti inevitabilmente aperte al mondo. Mi riferisco ai sensi, alla bocca e all’apparato digerente (dominante nel romanzo), con tutti i pertugi erotizzati. Tale ambiguità non è in sé l’origine del male, come vuole l’ipotesi spiritualistica, ma il fondamento materiale della scelta etica tra il bene e il male, cioè dell’uso che ne viene fatto. Rosa Suer è obbligata a mangiare il cibo “avvelenato” dalla paranoia di Hitler, ma non a accettare la relazione sessuale (e anche amorosa) col tenente Zigler. Le due storie non sono accostate casualmente. Ciò spiega nell’adesione filologica al testo la ragione della sua tenuta.
La scrittura è notevole, anche se un po’ troppo ricercata, quasi forzata, in certa aggettivazione, nell’uso metaforico specifico delle parole.
Rimane un problema: perché l’autrice finisce la storia facendo re-incontrare da vecchi Rosa e il marito, ritornato dalla Russia? La storia delle assaggiatrici finisce prima. Apprendiamo che i due hanno provato a ricostruire il loro matrimonio, ma non ci sono riusciti. Gregor si è costruito un’altra famiglia, Rosa è rimasta sola segnata indelebilmente dalla propria scelta di adattamento ad ogni costo. Il cerchio si chiude ancora sul corpo e non sulla fiducia. Rosa accarezza Gregor e ripete un loro atto antico: “gli passo due dita sulle labbra. Gregor apre la bocca … E le bacia”.
Subito dopo Rosa va a mangiare al buffet dell’ospedale e ripete il rito dell’assaggio, ritorna circolarmente alla scena iniziale: l’assaggio dei fagiolini (la prima scena del romanzo), sbircia intorno per vedere chi “mangia quel che mangio io”, lo trova, poi assaggia, “bocconi misurati, uno dopo l’altro, finché lo stomaco non tira” (l’ultima scena del romanzo). Ecco è il corpo ambiguo, disposto a tutto per sopravvivere, ad essere il grande personaggio del romanzo, soprattutto il corpo femminile e l’emersione dell’inconscio che in esso si manifesta. Il corpo non è “sovrastorico” come pretende Recalcati, narra – nella sua realtà antropologica e animale prima che culturale – una storia prima della Storia scritta e alta.
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