GROSSETO – 55 anni. Sono trascorsi 54 anni dall’alluvione che devastò Grosseto. Era il 4 novembre del 1966. La città veniva invasa dall’acqua e dal fango esondati dall’Ombrone. Giorni e giorni di piogge continue; i fiumi si erano ingrossati, i terreni erano ormai fradici, i campi allagati, nelle campagne la terra fangosa affondava sotto gli stivali.
«Ero in servizio presso la stradale di Arcidosso – ricordava qualche anno fa Guido Filippetti – pioveva già dal giorno prima. Il 3 sera, alle 19.30 siamo partiti, io e il brigadiere, con una campagnola per andare a vedere come era la situazione dell’Ombrone. Arrivati al ponte sul torrente Fogna il ponte era parzialmente crollato. Non avevamo nulla per segnalare la cosa, e così ci siamo messi davanti al ponte con l’auto e quando vedevamo un mezzo arrivare dall’altro lato attraversavamo a piedi per fermare le auto. Ad un certo punto il ponte è crollato del tutto».
Filippetti aveva raccontato anche un lieto evento di quei giorni tragici «C’era una donna ad Aratrice che doveva partorire, aveva le doglie, ma l’ambulanza, essendo troppo bassa, non riusciva a passare, come anche la levatrice. E così sono stati i poliziotti che, con la loro auto, sono andati a prendere la donna e l’hanno accompagnata all’ospedale dove ha dato alla luce un maschietto, nato proprio il giorno dell’alluvione».
«La mattina del 4 novembre, alle 3, mia madre, con le prime doglie, venne accompagnata da mio padre, a piedi, sotto il diluvio, alla vicina clinica Francini, in via Don Minzoni, dalla nostra casa sul viale Mameli – racconta Lamberto Magrini -. Io avevo sette anni, rimasi con mia nonna. Dopo poche ore, vedemmo arrivare la “piena”, l’acqua marrone, copriva le scale dell’albergo Ombrone. Verso le sedici, tornò mio padre, con indosso un paio di cosciali, mi prese in braccio e mi abbracciò, dicendomi che era nata mia sorella».
Fu Omero Pucci, con il megafono, la piena alle spalle quasi a rincorrerlo, a svegliare la gente e a dirle di salire ai piani alti. Sul tetto se necessario. I Vigili urbani di Grosseto presero le moto e cominciarono a girare per le strade per avvertire tutti che stava arrivando la piena, di salire ai piani superiori di mettersi in salvo. Tra loro, come ricordò Felice Serra (allora capo della Municipale), durante le manifestazioni dei 50 anni dall’alluvione, Giuliano Bianchini, il vigile che, con la moto, andò a controllare, la mattina del 4, la situazione dell’argine e tornò precipitosamente indietro inseguito dalla piena dell’Ombrone.
Poi alle 7.45 il fiume ruppe gli argini in tre punti e la città fu invasa dall’acqua: abitazioni, locali, bar. Il corso come un fiume con le case a fare da argine, le cose, gli oggetti trascinati via dall’acqua che raggiunse anche i tre metri. Le auto parcheggiate sulle Mura, per cercare di salvare il frutto di tanti sacrifici. Ma anche le campagne furono devastate.
«I miei genitori (che erano i titolari del Caffè nazionale) – afferma Laura Cutini – videro spazzato in un’ora il lavoro di 20 anni. Loro rimasero sulle mura, e furono ospitati dai miei zii mentre io e Silvia rimanemmo in casa in via dei Mille con la nonna».
Gli arcieri della città si dettero subito da fare: dalle Mura lanciavano frecce legate a grosse funi che, con le carrucole, servivano a far arrivare i viveri ai grossetani intrappolati nelle case: tra loro anche un giovane Lucio Parigi.
Lo studente Matteo D’Angelo con il suo canotto da mare portò latte e carne a chi era intrappolato in casa con l’acqua alta. e trasse in salvo una donna incinta con il suo bambino piccolo (a questo LINK il racconto).
Anche Raffaello Rossi usò un canotto per raggiungere casa dei suoi, ma era un canotto dell’Eurovinil per cui lavorava. Un nuovo prodotto che l’azienda aveva appena messo a punto e che aveva battezzato Danubio (a questo LINK il racconto).
Italo Rossi raccontava un paio d’anni fa: «La sera del 3 novembre 1966 partimmo per Roccastrada, ma arrivati vicino a Istia d’Ombrone, fatta una curva, mi ritrovai nell’acqua dell’Ombrone che aveva già esondato in alcuni punti. Fortuna volle che di lì a poco passasse un autotreno, l’autista aveva delle titubanze, e andò alla guida un autista della Rama, il signor Nocentini, che spingendo l’auto ci portò all’asciutto. Fummo accolti nel podere della famiglia Diligenti. La mattina del 4 novembre alle 7 sentimmo il ponte di Istia crollare sotto i colpi dalla piena. Ci rifugiammo in una fornace. Passammo due giorni a patate lesse e un fagiano. Eravamo 22» (a questo LINK il racconto).
Il ricordo della piccola Laura, allora una bambina, è invece quello degli zii e le cugine che salgono di corsa le scale «mia zia teneva in mano un pollo mezzo spennato» (a questo LINK il racconto).
Maurilio Bartolini aveva 13 anni e abitava a Castiglione della Pescaia: «Il rumore del mare aumentava di intensità e sul tetto la pioggia faceva il rumore di un tamburo suonato a quattro mani. Poi il buio in casa. Anche stavolta la Maremmana ci aveva traditi. Candele accese dentro e lampi fuori. Una baraonda. Ricordo il pianto di Cristina che era in casa nostra. La mattina, non appena riuscii ad uscire, mi avviai verso il Palazzo comunale e cominciai a rendermi conto di quale inferno si fosse abbattuto nella notte sul paese. La strada era fangosa. I tombini aperti. Foglie dovunque. Primo incontro, una bella biscia sul marciapiede. Secondo incontro, un tronco vicino alla croce rossa. Mi spinsi fino alla spiaggia e, lo confesso, mi misi a piangere» (a questo LINK il racconto).
«L’elicottero del 4° Stormo – racconta un lettore, Erio Bertizzolo, – fece la spola tra l’aeroporto e i casolari isolati per portare viveri e medicinali. Fu richiamato per un intervento urgente mentre il maresciallo Andrea Mandanici si era calato su un tetto, e li rimase fino al tramonto quando l’equipaggio ebbe l’autorizzazione e la possibilità di andarlo a recuperare. Tra l’altro, utilizzando il canotto a motore di un collega, partimmo dal circolo ufficiali di Marina per soccorrere una famiglia isolata nella zona del Cristo ma non potemmo portare in salvo la nonna che non volle calarsi nel canotto dalla finestra del primo piano “perché le si vedevano le mutande”».
«Mia mamma, Gabriella Ferioli, che all’epoca aveva 19 anni ed abitava a Ribolla, si ricorda che quel giorno si trovava a Grosseto in visita a dei parenti – racconta Cinzia Bartolini -. Riuscirono a trovare un passaggio per rientrare a Ribolla tra acqua, fango e gente che spalava la melma dalle abitazioni e dai negozi. Qualche giorno dopo arrivò a Ribolla un camion con della biancheria da lavare tutta fangosa proveniente da Grosseto. Alcune donne la presero con la promessa che sarebbero state pagate per il lavoro. La lavarono al fosso e la stesero ad asciugare. Dopo qualche giorno tornò il camion a ritirare la roba pulita ma l’autista disse alle donne che non poteva pagarle e che si potevano tenere la biancheria. Mosse a compassione le donne restituirono tutto».
Quando le acque si ritirarono lasciarono un carico di morte: gli animali, le mucche delle fattorie, tutte annegate. E soprattutto un uomo: per salvare la mandria morì il buttero della fattoria Acquisti, a Braccagni, Santi Quadalti (nella foto sopra) che si gettò nelle acque per aprire il recinto e far fuggire gli animali e invece perse la vita assieme a quelle bestie che voleva salvare. «Un camion carico di animali morti fu fermato all’uscita di Grosseto – raccontò Giuseppe Sargentoni – qualcuno senza scrupoli, proveniente da fuori, aveva pensato di raccoglierli e poi macellarli per venderli fuori regione».
Roberta, allora una bambina, ricorda «la nostra casa, nella zona di San Giuseppe, fu risparmiata. Nelle settimane seguenti ricordo intere tavolate di funghi, sott’olio, cotti, crudi. Mio padre andava nel bosco e tornava con panieri colmi tanto che non sapevamo più cosa farne».
Anche gli impianti sportivi furono invasi da fango e acqua lo stadio del Grosseto fu ricoperto dal fango e giocatori e dirigenti si improvvisarono muratori e operai per rimettere tutto a posto.
L’opera di ricostruzione, guidata dal sindaco Renato Pollini, fu immane. Fu una specie di anno zero per la Maremma, ma, come ricordava lo stesso Pollini, la popolazione «non si pianse addosso ma seppe rimboccarsi le maniche per ricostruire la città». Una città che si scoprì sola ma vicina, una città che fece quadrato attorno a chi aveva perso tutto.
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