DELPHINE DE VIGAN
“LE FEDELTÀ INVISIBILI”
EINAUDI, TORINO, 2018, pp. 163
La De Vigan – come ci avverte la quarta di copertina – “è una della autrici più premiate e vendute di Francia” e ci consegna un romanzo breve, nitido, asciutto e intelligente. Se non fosse che considero l’autobiografismo un metodo critico riduttivo, direi un libro “anoressico”, cosa di cui l’autrice ha un’esperienza personale. Ella ha sofferto di anoressia, guarita a 19 anni. A questa storia autobiografica ha dedicato un romanzo, “Giorni senza fame” (2001). L’obbiettivo (e forse un “significato secondo”) del romanzo è indicato fin dal titolo, che inevitabilmente rimanda ad una esperienza terapeutica. In francese il titolo è “Les Loyautes”, che è più fedele dell’ italiano alla sua matrice psicoterapica. Un autore prestigioso della psicoterapia familiare, l’ungherese Ivan Boszormenyi-Nagy , ha scritto con Geraldine Spark un saggio, pubblicato da Astrolabio (1973) con il titolo “Lealtà invisibili. La reciprocità nella terapia familiare intergenerazionale”.
Nella psicoterapia sistemico-relazionale della famiglia vengono presi in esame i legami tra più generazioni, invece il romanzo prende in esame solo il rapporto tra genitori e figli adolescenti. Cosa siano “le fedeltà invisibili” viene chiarito dalla De Vigan fin dall’esergo: “sono le leggi dell’infanzia che dormono dentro il nostro corpo … Le nostre ali e le nostre catene”. Il romanzo è costruito per brevi capitoli intitolati al personaggio di cui trattano, con una caratteristica specifica: quando si parla degli adulti la narrazione è in prima persona, quando riguarda i ragazzi in terza persona; quasi per ottenere un effetto distanziante, oggettivante.
È come se la De Vegan entrasse nel mondo degli adolescenti in punta di piedi, come è giusto che sia, dichiarandolo visto da fuori, enigmatico. Il sistema dei personaggi ha quattro figure principali, che sembrano essere importanti quasi allo stesso livello. Hélène, l’insegnante di scienze, si porta dietro una storia dolorosa di violenza fisica (non sessuale) del padre, che ne attacca ferocemente l’intelligenza (è la storia di un tradimento paterno, che è spesso presente nelle vicende delle anoressiche). È condannata a non poter aver figli per le botte che ha preso, ma le sue ferite la rendono sensibile a quelle nascoste degli allievi. Non vi è traccia del trigenerazionale, cioè dell’intreccio delle tre generazioni (figli, genitori e nonni): non si capisce perché il padre di Hélène è così feroce con la figlia, invidioso della sua bravura.
È lei che avverte la sofferenza di Thèo, suo allievo di dodici anni, lacerato dal divorzio dei genitori, che cerca sollievo nell’alcol. Un tema molto attuale. Alla domanda “che interessi hai?” “risponderebbe senza esitare: ‘Mi piace sentire l’alcol in corpo’”. Ne cerca l’effetto anestetico e autodistruttivo fino all’annullamento: “si chiama coma etilico. Gli piacciono queste due parole, il loro suono, la loro promessa: un momento di scomparsa, di eclissi, in cui non devi più niente a nessuno”, un momento in cui può cancellare le sue lealtà. Il compagno di questo viaggio verso un nirvana, che confina con la morte, è un compagno di scuola, Mathis, che finanzia l’alcol rubando i soldi alla madre, Cécile. Questa è il quarto personaggio, una casalinga ossessionata dall’ordine, che dietro la facciata perbenista scopre che il marito coltiva su internet un mondo ferocemente razzista ed omofobo. Solo l’insegnante si rende conto, nella cecità degli adulti, del pericolo che corre Théo.
L’angoscia che lo artiglia deriva da una madre, la quale non ha perdonato il tradimento del padre per “la troia” come chiama l’amante e da un padre, ridotto ad una larva dall’abbandono sia dell’amante che della madre. “Ogni volta che parlava male di suo padre, quel senso di disagio, di lacerazione, gli scombussolava la pancia”. Théo gli è leale fino in fondo. Nell’affidamento separato passa una settimana da lui e l’altra dalla madre, sono due fasi distinte: la madre cerca di regolarne la vita scrupolosamente, il padre vive in modo degradato, di lui si occupa il figlio, che però si prende la “libertà” adulta di bere. È Théo che regge il precario equilibrio familiare e affonda nell’alcol. Nessuno lo vede. Questa è la lealtà che lo porta alla distruzione, fino all’agnizione finale, che lascio alla curiosità del lettore. Dice Hélene: “So che i figli proteggono i loro genitori e so quale patto di silenzio li porti a volte fino alla morte” Qui sta forse il senso morale del libro: un avvertimento ai genitori perché vedano gli adolescenti prima che sia tardi. Come dicevo una scrittura nitida, che scorre bene, nonostante il contenuto drammatico. Non sembra esserci un “ritorno del rimosso”.
In tutto il romanzo c’è un’unica scena di sesso, accennato, deludente. Hélène ricorda di un collega: “mi accarezzava i fianchi, le natiche, i capelli. Attraverso il tessuto morbido della gonna sentivo il suo sesso indurirsi contro la mia coscia. Non mi ha baciata”. È tutto molto remoto. L’intero racconto è, invece, un’emersione dell’inconscio nel senso che esprime un desiderio di vivere, che rimane “al di qua”, inespresso, una sorta di protesta ostile verso l’istituzione sociale del mondo adulto ad opera della bambina che è rimasta Hélène, la quale così si centralizza come protagonista