SANDOR MARAI
“DIVORZIO A BUDA”
ADELPHI EDIZIONI, MILANO, (1935) 2002
Il romanzo, di cui parliamo oggi, precede di poco tempo l’uscita di quello che è considerato il capolavoro dell’Autore: questo esce nel 1935, “Le braci” nel 1942 e condurrà a perfezione lo stesso meccanismo narrativo: due personaggi si contendono il campo in un duello “narrativo”, che affronta i grandi temi della vita: l’amore, il destino, la morte e in questo caso soprattutto il tema della verità.
Essi vengono presentati dalla prima pagina del romanzo. Il protagonista che riempie la prima metà del libro è “il giovane magistrato Kristòf Kõmives”, erede di una dinastia di magistrati di origine borghese, che confida nella necessità di mantenere l’ordine sociale; di orientamento religioso pensa di far parte non solo della propria famiglia, compresa quella presente (un matrimonio che giudica felice con Herta, da cui ha due bambini), ma anche della famiglia dei magistrati e di una famiglia più vasta che è la società. E’ colto nel momento, in cui il giorno dopo con qualche disagio deve giudicare il divorzio di “un giovane medico di una certa fama”, Imre Greiner, a cui è legato da una vicinanza giovanile, sono stati compagni di università. In realtà i due personaggi ne hanno alle spalle altri due, Kristòf la moglie Herta e Imre la moglie Anna.
Qui c’è una differenza rispetto a “Le Braci”, dove in mezzo a un tipico triangolo borghese c’è una donna enigmatica, quasi imprendibile. Màrai si è sempre definito “un borghese”, definendo onestamente con questo il perimetro preciso della sua esperienza. Nella prima parte del libro è descritto l’ambiente comune ai due personaggi: essi esercitano nella capitale e più precisamente a Pest, ma vivono (si scoprirà nella seconda parte del romanzo), nella nuova città di Buda, sulla riva sinistra del Danubio, dove si svolgono i riti della classe media, depauperata dalla Grande Guerra, mentre un’altra ne incombe di portata ancora più rilevante. “Egli conosceva e amava quella modesta e signorile classe media di cui faceva parte; la sentiva come un’unica grande famiglia, nelle sue consuetudini sociali percepiva il mito della famiglia … e nella sua vita privata come nel lavoro si considerava responsabile del suo benessere e della sua sicurezza”.
Ma si capisce che l’equilibrio è andato in frantumi non solo per la guerra, ma anche per la rivoluzione, esplicitamente citata. Il giudice critica la crisi dei valori della sua stessa classe, l’eccessiva disinvoltura con cui la giovane generazione parla dei problemi sessuali e del denaro come unico valore dominante nella sua classe sociale. Pensa che il matrimonio sia un sacramento ed è chiamato a sciogliere civilmente un legame sacro. Egli stesso, che è felicemente sposato, è insidiato dalla nevrosi, da una specie di vertigine che lo coglie negli ultimi tempi. Questa volta Màrai esplicitamente fa riferimento alla psicoanalisi: “a quei tempi era in voga l’educazione di matrice psicoanalitica”.
Ne deve aver avuto un’esperienza diretta, anche se non mi risulta che fosse stato analizzato. Negli anni Venti del Novecento Budapest era un centro attivo in questo campo con un gruppo di medici, che si raccoglievano intorno a uno degli allievi più brillanti di Freud, Sandor Ferenczi. Il “gruppo degli ungheresi” nel loro esilio londinese sarà quello che sperimenterà più radicalmente la psicoanalisi in vari ambiti, anche lontani da quelli circoscritti da Freud (l’analisi infantile, l’analisi delle psicosi, la relazione medico di base-paziente, le terapie brevi).
I sogni hanno un ruolo decisivo nel romanzo: l’interrogazione decisiva di Imre a Kristòf riguarda un sogno e per quanto il giudice neghi decisamente ogni significato onirico, dicendo “Sogno, follia” con un’idea arcaicamente borghese, ne è decisamente turbato, in quanto il sogno stabilisce un triangolo tra i due decisamente sui generis, il cui disvelamento lascio alla curiosità del lettore. La seconda parte del romanzo è il lungo racconto del giovane medico, che il giudice trova la sera stessa ad aspettarlo a casa propria quando egli rientra con la propria moglie dopo una “merencena”, che nella crisi sociale post-bellica ha “sostituito con moderna semplicità i lauti banchetti di un tempo”.
Imre vuole raccontare al vecchio amico i recenti avvenimenti, che renderanno inutile l’udienza del giorno successivo. Sul filo sottile dei ricordi e dei sentimenti, nella cui descrizione Màrai è maestro, parleranno tutta la notte – soprattutto il medico, il giudice ascolta con qualche raro intervento (anche questa è una somiglianza con “Le braci”) – e cercheranno di ricostruire la verità ed il destino ad essa connessa, ovviamente da punti di vista diversi. Kristòf ha le sue certezze relative “Che cos’era la ‘verità’ nella pratica davanti al giudice? C’era il mondo, con i suoi processi, i suoi assassini, … con il suo odio e la sua bramosia; c’era la legge; … e infine c’era il giudice, che da questa materia molteplice, … distillava un qualcosa che, in base alle formule chimiche della legge, finiva per coincidere con la verità… Ma la giustizia, al di là della legge, era pur sempre qualcosa di soggettivo”.
Il medico è venuto di notte ad interrogare il giudice e dice “in questo momento non voglio altro se non sapere la verità” e questa sembra essere per lui affidata alla impalpabile consistenza di un sogno. Aveva detto Imre “sono le circostanze e il caso a determinare il destino delle persone”, in questo caso limite un sogno. Dunque c’è nel romanzo un potente emergere dell’inconscio, che secondo la lezione freudiana ammette una via maestra, il sogno. Da questo punto di vista i sogni sono oggetto privilegiato della psicoanalisi. Marai si cimenta con un’altra domanda analoga, forse più inquietante: possono essere i sogni oggetto anche di un’indagine giudiziaria?