JOSE’ SARAMAGO
“CAINO”
FELTRINELLI, MILANO, 2010, pp.142
Saramago ritorna sul tema della religione con una delle sue prove migliori, dopo l’opacità del “Viaggio dell’elefante” (Einaudi, 2009), così in contrasto con il graffiante “Il quaderno” (Bollati Boringhieri, 2009), che raccoglie gli interventi soprattutto politici dal suo blog. Il romanzo segna il passaggio dell’autore da Einaudi a Feltrinelli con la deliberata intenzione di rompere con una casa editrice legata a Berlusconi. Il tema è tratto dal Vecchio Testamento e lo stile è più ironico, di una ironia nera, priva della corrente di simpatia vitale del romanzo di vent’anni prima (“Il vangelo secondo Gesù”, 1997). Qui oltre la tradizione del dialogo di Saramago con le battute che sono divise solo da una virgola, i nomi propri di persona compreso “dio” sono tutti con la minuscola con una sorta di “diminuitio” all’umano di personaggi tanto mitici.
A 88 anni, Saramago non fa alcuno sconto alla prospettiva religiosa dell’esistere e, giocando con le figure allegoriche del bene e del male (Caino e un Dio che scommette con Satana come con un vecchio amico), le rovescia. Colui che tradizionalmente incarna il male, subito dopo la cacciata dei suoi genitori dall’Eden, il fratricida Caino, è descritto con grande intensità umana, con le sue luci e le sue ombre, né più né meno uno di noi. Una divinità, che sembra in balia del caso e che comunque non sa neppure lui cosa vuole, prima rifiuta il sacrificio di Caino, preferendo senza motivazione quello di Abele, e poi di fronte all’assassinio di quest’ultimo, di cui di fatto è l’istigatore, condanna Caino a una vita errabonda attraverso il tempo e lo spazio di un mondo primevo.
Questo Dio, che è coerentemente quello del Vecchio Testamento, terribile, vendicativo e crudele fino a bruciare a Sodoma anche gli innocenti bambini, è ondivago come il caso che rappresenta, una sorta di calco negativo dell’umanità, chiamato a riempire i vuoti di quando non riusciamo a comprendere il nostro destino. Significativo il passaggio con cui si chiude il capitolo 6, dove viene raccontata la torre di Babele, che l’editore italiano mette in quarta di copertina: “La storia degli uomini è la storia dei loro fraintendimenti con dio, né lui capisce noi, né noi capiamo lui”.
Il protagonista femminile è Lilith, la prima donna di Caino, signora della terra di Nod; citata nella Bibbia una sola volta nel libro di Isaia come un demone muliebre, la personificazione della passione erotica, viene trasformata nel romanzo in una donna capace di passione e di amore; richiamata dalla tradizione del Talmud in cui è la prima moglie di Adamo, soppiantata da quella stupida di Eva. Lilith è una sorta di divinità carnale e prolifica, la classica Pomona della tradizione mediterranea.
La critica della divinità del Vecchio Testamento sembra essere connessa con quella feroce delle radici del sionismo, che anima molte delle cronache del “Quaderno”.
L’allegoria senza rimedio della fine dell’umanità, che chiude il romanzo e non sembra avere redenzione dal diluvio universale, va letta come un monito all’attuale umanità: in questo caso il dio onnipotente che ci condanna all’estinzione siamo noi stessi, bolsi esecutori di un conformismo dominante come il fedele Noè, cieco agli ordini di Dio fino al proprio suicidio, che lo fa umano, in quanto ne riscatta almeno con la morte la stupidità.