MONTIERI – Nell’ottobre del 2015 l’associazione culturale LunaNera pubblica il libro “Il villaggio che non c’è più”. Uno spaccato di vita passata, un pezzo di storia vissuta, ricordando luoghi spesso dimenticati o che addirittura non esistono più, come, in questo caso, il Villaggio Le Merse di Boccheggiano (Montieri) nelle Colline Metallifere.
L’autore del libro si chiama Antonio Nozzoli, follonichese di adozione, nato proprio nel Villaggio Le Merse e che ringrazio per essersi reso disponibile a rispondere alle mie domande.
Boccheggiano e il Villaggio Le Merse costituiscono un patrimonio storico importante dell’entroterra maremmano. Antonio come è nata l’idea di scrivere questo libro?
L’idea, o meglio, la necessità interiore di scriverlo è nata dalla percezione che quella vita, quel modo di vivere, sarebbe scomparsa anche dai ricordi una volta finita la mia generazione. La spinta definitiva me l’ha data la forte emozione provata ed il pianto che ne è scaturito alla scoperta che il mio paese natale era stato raso al suolo, cancellato per sempre.
Che cosa significa per te ricordare il lavoro della miniera ed i suoi luoghi?
La miniera e il mondo che ci girava attorno con le sue luci (poche) e le sue ombre (tante) sono le mie radici, quelle dei miei bisnonni, dei miei nonni e dei miei genitori: almeno tre generazioni hanno vissuto di miniera e nulla c’è di più profondo nel nostro io che le nostre radici ed il legame forte con la nostra terra che in questo caso non è solo amata ma anche penetrata e trasformata in fonte di sostentamento.
Alcune scene del film “La ragazza di Bube” sono state girate proprio nella zona del Villaggio Le Merse. Antonio, tu cosa mi puoi dire a questo proposito?
Il ricordo più nitido è il fervore che ha accompagnato quell’evento, le persone che aspiravano ad una parte da comparsa e l’eco rimasto anche a distanza di mesi dopo il passaggio della troupe. Inoltre la fine della guerra era ancora relativamente vicina e molti ex partigiani, ora minatori, avevano vissuto in prima persona quel periodo e ne conservavano ancora forte il ricordo, molti di loro si rispecchiavano nel comunismo come Bube e quindi erano anche emotivamente coinvolti.
Nel tuo libro ci sono molte foto di un passato che ormai non esiste più ma che disegna comunque un pezzo di Maremma. Se tu ne dovessi scegliere una sola per rappresentare questa terra, quale sarebbe?
Di sicuro quella dell'”armatura” delle gallerie. La foto riprende minatori senza l’ausilio di macchine, solo picconi, muscoli e sudore, che hanno fatto parte degli uomini di miniera e delle loro famiglie che condividevano con loro stenti, sacrifici, ansie e dolori, ma anche una vita più “pura” della nostra. Nel caldo della miniera e nel pericolo quotidiano si rafforzavano i legami ed era quasi inevitabile che si creasse uno spirito di solidarietà e di generosità che ha sempre contraddistinto i minatori e le loro famiglie, non a caso le basi di molte sezioni di donatori del sangue della nostra zona sono state create proprio dai minatori.
“Il ricordo è il tessuto dell’identità”, Nelson Mandela.