di Silvano Polvani
GROSSETO – Le lotte dei minatori sardi sono di nuovo alla ribalta. Le loro gesta ancora sotto i riflettori, come lo furono nel 1993. Lo ricordo bene, era il primo Maggio 1993, quando i minatori sardi reduci da una lotta disperata che li aveva visti occupare per settanta giorni le loro miniere vennero a Massa Marittima. Furono ricevuti da vincitori.
Una delegazione di quattro minatori su invito della Filcea provinciale di Grosseto, giunse su da noi nelle Colline Metallifere: ci eravamo dati l’obiettivo di stare assieme per parlare delle nostre “disgrazie”, anche da noi infatti le miniere metallifere stavano chiudendo, non rientravano più nei programmi dell’ENI.
Ripenso volentieri a quel giorno non solo per esprimere oggi la mia fraterna solidarietà ai minatori in lotta ma anche per ricordare, per quanti non lo conoscono, il lavoro e l’ambiente di miniera, il sacrificio che esso richiede, una fatica definita “l’ultimo pane”.
L’incontro ufficiale si tenne nella sala del consiglio comunale. Il calore umano, l’amicizia e gli affetti fraterni propri di chi condivide un progetto comune si esaltarono durante il pranzo che si consumò alla festa di Pianizzoli in una giornata stupenda riscaldata dal vino del Banchi e incantati dai ricordi della miniera che ci narrò il vecchio minatore Florio, minatore sin dal dopoguerra, a Niccioleta, a quella di carbone di Ribolla dove nel 1954 per lo scoppio del Grisoù persero la vita 43 minatori, poi ancora minatore a Campiano. Una vita da minatore.
“Mio Dio! mi chiedete di raccontarvi la miniera – prese avvio il racconto di Florio -, un terreno fangoso e cosparso di pietre ti accoglieva, scale con gradini alti e disuguali, instabili e pericolosi ti conducevano sempre più giù nel ventre della terra, in un labirinto di gallerie, dove ruscelli di pantano scorrevano lenti, dove dalle volte goccioloni d’acqua si staccavano dal soffitto cadendo addosso a quanti attraversavano quei gironi infernali. Caldo e freddo assieme, correnti d’aria gelata si liberavano dalle ventole poste in alto per il ricambio dell’aria. Un rombo incessante e assordante attraversava le gallerie, lontano si udivano le urla dei minatori che si chiamavano, gridavano i propri nomi per sentirsi vicini e farsi coraggio nella loro opera quotidiana. Più scendevi e più l’aria diventava grave, pesante e calda, un denso vapore che saliva dal basso inondava le gallerie, si fermava sulle vesti e sul corpo, sulla persona tutta, il caldo sempre più pressante sembrava opprimerti e stringerti in un’angoscia devastante, che mischiata ad una nauseante puzza di muffa e alle esalazioni rendeva faticoso lo stesso respiro. Per far fronte al caldo soffocante scoprivamo le braccia e altre parti del corpo dove un sudore abbondante correva lungo le nostre carni arrossate, piene di lividi e ricoperte di fango, le mani callose e alterate dallo sforzo facevano fatica a stringersi, i nostri occhi apparivano privi di espressione, persi nelle nebbie della miniera, guidati solo dalla tenue luce del lume a carburo la cui fiamma ondeggiava al correre delle correnti d’aria fredda che si sprigionavano fra i cunicoli e i passaggi sotterranei, fra i tunnel e le gallerie”.
“Con il tempo la miniera – proseguiva il suo racconto – si è modificata, il lavoro è diventato meno pesante, si è evoluta tecnologicamente il lavoro di miniera, il più aspro fra i lavori è cambiato.
La miniera di Campiano, l’ultima fra le nate, era considerata la più avanzata d’Europa per la tecnologia che vi era impiegata. Enormi macchine, con le ruote più alte di un uomo che sputavano vapore dalle loro marmitte andavano e venivano da settecento metri da sottoterra. Le macchine avevano cambiato il lavoro. Non era più come come ai miei giorni dove i minatori l’uno accanto all’altro mischiavano sudore, colpi di piccone e imprecazioni. La miniera si era trasformata rendendo il suo lavoro non migliore né peggiore ma solo diverso dagli altri lavori.
Poi di punto in bianco qualcuno decise che le miniere non servivano più, bisognava chiuderle, smantellarle, allagarle e dimenticarle. Facile dire bisognava chiuderle perchè non erano più redditizie, perchè non ingrassavano più i padroni, facile a dirsi ma difficile da capire dopo che nelle sue viscere avevi sputato sangue, imbrattato i tuoi polmoni dalla polvere, ceduti i fragili nervi perchè la miniera è paura, è angoscia, in miniera convivi con l’inquietudine, è questa la tua compagna che ti tiene in allerta sino a quando non risali fuori e riconosci le stelle, il sole, avverti l’aria e il fruscio del vento che ti accarezza lungo il corpo. Per scendere giù nel fondo del ventre della terra, per inoltrarsi nell’oscuro groviglio delle gallerie e ritrovarsi nel buio assoluto, misterioso e spaventoso, sentire l’acqua e scorgere il fuoco che appaiono spontanei, senza avvertire, occorre un grande coraggio, un coraggio che ogni volta devi darti perchè non è mai scontato”.
La conclusione del racconto di Florio era anche la nostra conclusione “Ma voi nostri graditi ospiti sardi avete coraggio, ne avete da vendere, siamo orgogliosi delle vostre azioni, siamo stati in ansia per tutti quei chili di esplosivo, la vostra vicenda è entrata nelle nostre case, ci ha commosso, i cantieri di San Giovanni, Masua, Acqua Resi, Nebrida e Su Zurfuru ci sono oggi familiari. Siamo schierati dalla vostra parte, dalla parte di chi difende la libertà e il lavoro. Bravi!.”
La speranza che ho e l’augurio che invio ai minatori sardi è di rivederci ancora, oggi come nel 1993 a conclusione di una vertenza positiva, per raccontarci questi vent’anni che ci hanno diviso.