GROSSETO – La cattiva notizia è la peggiore possibile. Dal punto di vista demografico la provincia di Grosseto ha imboccato stabilmente – a meno di miracoli, inevitabilmente – la strada del declino irreversibile.
Fatte le debite proporzioni, nel 2060 (tra quarant’anni) la Maremma tornerà a essere rispetto al resto della Toscana quel che era nel XVIII secolo (1700): un territorio con meno di 20.000 residenti, infestato da ricorrenti invasioni di cavallette e con gli animali da pascolo che spesso affogavano per le esondazioni dei fiumi. La buona notizia è che peggio di così non poteva andare.
È quel che emerge dalle proiezioni effettuate da Simurg Ricerche per conto della Società della salute (CoeSo), nel contesto di una più ampia analisi degli indicatori socio sanitari del territorio a servizio dell’elaborazione del nuovo Piano integrato di salute (Pis).
Cominciamo dalle proiezioni sulla popolazione residente. La società di ricerche livornese ha ipotizzato quattro scenari, a partire dal 2018 (221.629 residenti) e tenendo conto che nei cinque anni precedenti tutti gl’indicatori statistici erano in flessione. Nel 2013, infatti, i residenti in provincia di Grosseto ammontavano a 225.098. Ebbene, il primo scenario (A) si basa sull’ipotesi che il tasso di fecondità (numero di figli per donna in età fertile) e quello di mortalità (incidenza dei morti in un anno rispetto alla popolazione residente) rimangano invariati, mentre sia azzerato il tasso migratorio (saldo tra chi va via e chi arriva). In questo caso nel 2060 in provincia di Grosseto vivranno appena 137.702 persone. Cioè a dire, circa 84mila in meno rispetto a oggi. Certo, per i teorici da salotto dello «staremo più larghi e con meno inquinamento», una cuccagna. Di fatto un’ecatombe, in termini demografici ma anche economici e sociali. Poi vedremo nel dettaglio perché.
Lo scenario B, invece, si basa sull’ipotesi che i tre tassi di riferimento – fertilità, mortalità e migratorio – rimangano costanti, cioè nella media degli ultimi 5 anni (discendenti). In questo caso la provincia di Grosseto perderebbe “appena” 30.000 residenti, attestandosi tra quarant’anni a 190mila abitanti. Anche nella terza ipotesi (scenario C) basata sull’ottimismo, con la stabilità del tasso di migrazione e quello di mortalità, ma il progressivo miglioramento di quello di fecondità – fino a raggiungere in vent’anni il 2,1 che consentirebbe il tasso di sostituzione morti/neonati – ci sarebbe comunque una leggera diminuzione della popolazione residente. E nel 2060 ci ritroveremmo con circa 2.000 residenti in meno rispetto a quelli dell’anno base 2018 (221.629 abitanti).
Lo scenario più esaltante (D), ma a oggi utopico, prevede in crescita i tassi di fecondità, migrazione e aspettativa di vita. Con la popolazione residente che schizzerebbe a 322.220 persone; quasi 100mila abitanti in più rispetto a oggi.
È evidente che i quattro orizzonti considerati avrebbero conseguenze molto diverse fra loro. Nel primo caso sarebbe una tragedia vera e propria. Nel secondo e terzo le cose andrebbero male o malino. Nel quarto benissimo. Fatto sta che a oggi gli scenari più probabili sono senza alcun dubbio i tre peggiori. E questo è sostanzialmente conseguenza di più concause: struttura demografica della popolazione fortemente sbilanciata sulle coorti più anziane. Cinque anni consecutivi di calo degli indici demografici principali. Debolezza congenita dell’economia maremmana, troppo terziarizzata, che attrae sempre meno persino la manodopera immigrata a più bassa specializzazione.
Sullo sfondo di questa situazione funerea, gli effetti economici della pandemia del Covid-19. Ma anche discussioni oppiacee sull’invasione degl’immigrati che non vanno regolarizzati, o deliri lisergici sull’opportunità o meno di prendere finanziamenti del Mes rimborsabili in dieci anni al comico tasso dello 0,1%. Quando per farsi dare soldi coi titoli di Stato, già oggi si deve pagare fino all’1,8% d’interesse.
Ma al di là del ludibrio che suscitano certe lubriche castronerie. Quel che le ponderose discussioni di certi ermeneuti della minchiata sembrano ignorare, è che anche con il ritorno (improbabile) come negli anni Settanta del tasso di fecondità al valore di 2,1 figli per donna fertile – oggi in Maremma è 1,2 – che consentisse la sostituzione totale dei morti coi nuovi nati, la popolazione continuerebbe inesorabilmente a diminuire.
La questione – diversamente da quel che pensano i gerarchi locali dell’italianitudine – non ha nulla a che vedere con la salvaguardia della purezza dell’ethnos (comunità), peraltro inesistente, ma con la sua sopravvivenza in termini di equilibrata composizione sociale dal punto di vista generazionale ed economico. Una popolazione caratterizzata in prevalenza da gente un po’ in là con gli anni, infatti, nel medio-lungo periodo è destinata all’irrilevanza. Una specie di grande pensionato diffuso, popolato di arzilli vecchietti alla ricerca dell’elisir dell’immortalità. Sulla falsariga decadente del film Cocoon (1985). Coi giovani che ovviamente se la svignerebbero a gambe levate.
A dimostrazione che il problema centrale di cui tener conto rispetto a qualunque ipotesi plausibile di rilancio dello sviluppo economico è quello demografico, basta guardare alle elaborazioni fatte da Simurg Ricerche sull’andamento dell’indice di vecchiaia. Che già oggi è 243: cioè 243 ultra 65enni ogni 100 under15.
Tornando alle quattro ipotesi precedenti. Lo scenario A, il più distopico, con tutti gli indici costanti e zero immigrazione, per il 2060 prevede un terrorizzante tasso di 445,4 ultra 65enni ogni cento under 15. Lo scenario B, tutti i tassi costanti, arriva a 292/100. Quello C, migrazione costante e fecondità crescente, che migliorerebbe sensibilmente a 106,8. E infine il rinfrancante e improbabile scenario D, con tutti i tassi crescenti, che vedrebbe 92 ultra 65enni ogni cento under15. Un trend che nemmeno la riesumazione odierna del programma d’importazione forzata dei veneti ad Alberese, praticato negli anni 20 del secolo scorso da quel frescone del duce, sarebbe in grado d’invertire.
Dulcis in fundo, Simurg si diverte a spaventarci calcolando il cosiddetto “indice di dipendenza strutturale”. Indicatore di rilevanza economica e sociale che definisce il numero d‘individui non autonomi per ragioni demografiche (fino a 14 e oltre i 65 anni) ogni cento individui potenzialmente indipendenti (età 15-64 anni). Scenario A: 98,7. Scenario B: 72,4. Scenario C: 63,1; Scenario D: 62,6. Sostanzialmente, nella migliore delle ipotesi, ogni persona potenzialmente attiva (non occupata, attenzione), dovrebbe farsi carico di 0,62 persone non autonome.
Se come recita il dissacrante adagio popolare «in natura tutto pol’esse, fuorché l’omo pregno». Allora per il futuro c’è qualche motivo d’ottimismo. Ma si tratta comunque di ottimismo della volontà. Perché la ragione, parafrasando Gramsci, tira per il pessimismo.