GROSSETO – 75 anni fa (questo articolo è stato scritto il 26 aprile 2018) Grosseto viveva una delle pagine più nere della propria storia: quello che è ricordato come il bombardamento di Pasquetta. Il 26 aprile 1943 morirono 143 persone, perlopiù bambini, in quella che, con un macabro senso dell’ironia fu chiamata dagli alleati “Operazione uovo di pasqua”. Grazie alla collega Clelia Pettini vogliamo raccontare, all’interno della grande storia, la piccola drammatica storia di un ragazzo di 14 anni e della sua famiglia, le ultime ore di vita così come le ricorda la sorella, che allora aveva 9 anni.
Nella cripta del Sacro Cuore di Grosseto, dove sono ricordate le 143 vittime dell’attacco aereo del 26 aprile 1943, noto come il bombardamento di Pasquetta, c’è anche il suo nome, pur se riportato sbagliato, senza la lettera iniziale. Lui è Divo Conti, il mio prozio, morto nel tardo pomeriggio del 27 aprile del ’43 a seguito delle ferite riportate durante l’attacco aereo di quel lunedì di Pasqua. Sembra un paradosso quello di essere feriti in un giorno di festa e morire a quattordici anni dissanguato, dopo una lunga e dolorosa agonia.
Ma questa è la storia del fratello di mia nonna e di tante persone che, come lui, persero la vita in quel terribile episodio che ha segnato la storia della città di Grosseto. È una storia che conosco fin da piccola e che rivivevo con sgomento ogni 26 aprile, quando accompagnavo nonna alla messa in ricordo delle vittime. Per questo, forse, nel raccontarla non ci metterò la giusta distanza che il mestiere mi imporrebbe.
“Era l’ora di pranzo, stavo mangiando a casa degli zii”, ricorda mia nonna Lucia Conti, che tutti però conoscono e chiamano Mirella. “Divo doveva andare a fare merenda a Istia d’Ombrone, mentre babbo e Livo erano a pranzo fuori”. Mirella è una bimba di nove anni all’epoca, che ha perso la madre tre anni prima. Divo è il suo fratello più grande: “Un ragazzone, bello”, dice sempre, sottolineando la seconda parola scandendo bene le elle. Il babbo Alcide è un operaio delle cave, anarchico, e ha qualche problema, da sempre, con il regime. Livo è il figlio mezzano, allora di tredici anni: troppo pochi per andare a fare la scampagnata con gli amici, troppi per essere lasciato come la sorella piccola dagli zii.
All’improvviso quel giorno di festa diventa un incubo: “Se non ci pensi pian piano ti dimentichi – dice Mirella – ma se mi soffermo mi ricordo tutto”. Come il rombo che di colpo interrompe il pranzo e gela i commensali, la vista dalla finestra di alcuni aerei che da via Bonghi si infilano furiosi dentro via Oberdan. Lo zio che prende le due donne – la bambina e la moglie – per condurle verso il rifugio nelle mura medicee in quella che per anni sarà conosciuta come Buca di San Lorenzo. La corsa per strada insieme ad altre persone, dirette anche loro al rifugio antiaereo, mentre i bombardieri rombano e sparano.
Quel 26 aprile, infatti, tanti morti furono fatti dalle mitragliatrici che maciullarono la carne, bucarono edifici, crivellarono le mura di una città che non aveva più voglia di essere in guerra. Mirella ricorda la corsa lungo via IV Novembre (l’attuale via Fallaci), mentre i bombardieri sono così bassi da falciare le punte degli alberi, “forse di ippocastano, non ricordo bene”, e loro tre corrono in mezzo a corpi stesi per terra. “All’altezza della banchina, dove al tempo c’era una villa, abbiamo rischiato di essere colpiti”, dice. Ma riescono a raggiungere il rifugio ed attendere la fine di quella ingiusta carneficina. Solo verso le 16 escono alla luce del sole e trovano Alcide, il mio bisnonno, che cerca il figlio primogenito. “Divo non era mai arrivato a Istia e babbo, insieme agli altri familiari ed alcuni amici lo stava cercando”. Mirella si unisce alla ricerca.
Si dirige verso il corso poi, in via Montebello, gira verso l’ospedale. “C’era tanta gente fuori, una gran confusione”, e lo sguardo si perde un attimo dietro a un ricordo. Riesce ad entrare nell’atrio ed è lì che, da sola, si trova davanti a Divo. “Lui era seduto per terra, appoggiato al muro e vicino a una panca di metallo. Quando mi ha vista ha alzato un braccio, ma qualcuno velocemente mi ha allontanato”. Divo non ha più le gambe.
Sono state ridotte in poltiglia dai proiettili americani mentre si trovava con il suo amico Marcello alla stazione: prima della scampagnata a Istia avevano deciso di ritirare dei dolci secchi che il padre di Marcello, commerciante, stava aspettando. È lì che un’ombra nera arriva all’improvviso e inizia a sparare all’impazzata, mangiandosi le gambe di quel ragazzone e le vite di tanti altri che per chissà quale ragione dovevano, quel giorno, incontrare il loro destino.
Gli ultimi minuti di Divo, giovane sano, saranno raccontati poi dall’amico, anche lui ferito ma per fortuna lievemente, perché Divo non ne avrà più modo: sarà trasportato con un carretto all’ospedale e abbandonato nell’androne, insieme ad altri feriti. Da quel momento gli attimi di lucidità saranno pochissimi perché inizierà la sua agonia.
Dall’atrio del vecchio ospedale Mirella, allontanata non si sa da chi, inizia a gridare il nome del babbo, che arriva e, in qualche modo, riesce a portare il figlio ferito di sopra, nelle mani dei medici. Purtroppo non c’è molto da fare: servirebbe una trasfusione, ma non c’è sangue da usare e tentare l’amputazione di quel poco che è rimasto senza una sicura scorta di sangue sarebbe, secondo i sanitari, un azzardo inutile. E così Divo, quattordici anni compiuti a febbraio, si spegne lentamente verso le 19 del giorno dopo.
Nel frattempo ha ricevuto la visita del Re che, si racconta in famiglia, chiese in che reggimento fosse quel giovane ferito rischiando così di essere aggredito da Alcide che fu fermato, invece, da un militare della scorta.
Nel frattempo Mirella ha salutato velocemente il fratello ancora, per poco, lucido, “…che mi ha detto ’dammi un bacio perché mi sa che non ci si rivede più’”, ed è stata di corsa portata a Giuncarico da altri parenti. Saprà della morte di Divo solo un paio di giorni dopo quando arriva il primo conoscente dalla città. “È a Giuncarico che poi siamo sfollati”, ricorda, ed è dal paese sulle colline metallifere che lei e il fratello aspettavano notizie del padre, rimasto a Grosseto per lavorare. Ma questa è un’altra storia che rimarrà ancora nelle memorie di famiglia. Ed è però per non far spegnere il ricordo delle 143 vittime, dei tanti bambini crivellati mentre giravano sulla giostra dei “calcinculo” fuori Porta Vecchia, dei piloti di un aereo caduto linciati dalla folla e del vigile del fuoco punito per questo, che le storie di famiglia a volte devono uscire e diventare di tutti. Per questo ringrazio i colleghi de IlGiunco per avermi chiesto di portare questa testimonianza. In memoria di Divo, il prozio che non ho conosciuto e che ha dato nome a mio padre.