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di Ronchese Francesco, Infermiere di Pronto Soccorso
“Non piccoli medici ma grandi infermieri” e se lo dice il Sistema Sanitario Inglese ci possiamo credere, considerando che è lì che intorno agli ormai lontani anni 80 nasce il see and treat come modello organizzativo per gestire la problematica del sovraffollamento dei Pronto Soccorso che ancora oggi rappresenta una delle più importanti criticità relative all’organizzazione dei servizi di emergenza con ripercussioni negative sia sui tempi di attesa e di intervento, sia sulla capacità di tutto il sistema emergenza di fornire risposte adeguate che producono sanità e soprattutto salute.
Il See and Treat in pratica è un ambulatorio tutto infermieristico dedicato ai pazienti a minor gravità assistenziale e che potrebbero essere gestiti, dall’ingresso in ambulatorio fino alla dimissione, dal solo personale infermieristico esperto e formato appositamente per la gestione di alcuni problemi di salute, seguendo protocolli operativi. In caso di segnali/criteri di esclusione, l’infermiere invierà il paziente al tradizionale acceso al Pronto Soccorso per una valutazione medica. Ciò favorirebbe in maniera decisiva il problema del sovraffollamento e delle lunghe attese all’interno del Pronto Soccorso.
Ma perché questo sovraffollamento?
Probabilmente per due ordini di fattori da considerare e presidiare:
- Evoluzione dei bisogni delle persone: bisogno inteso come necessità o desiderio di colmare uno stato di insoddisfazione, con mezzi adeguati ed appositamente preposti per soddisfare sia il bisogno sanitario sia oggettivo corroborato da segni clinici, sia quello soggettivo quando è il soggetto stesso che interpreta i segni manifesti. Dovuto a cambiamento demografico, aumento della popolazione fragile, indebolimento della struttura familiare, società nuclearizzata. Ciò ha determinato domanda di salute diversa che richiede di uscire dalle risposte classiche e tradizionali, facendo, però anche i conti con la sostenibilità del sistema;
- Evoluzione del Sistema Sanitario Nazionale: un sistema “aziendalizzato” con nuovo assetto organizzativo, responsabilizzazione dei professionisti e dei dirigenti che richiede sempre più un’innovazione delle competenze e soprattutto un diverso utilizzo di esse.
Tutti noi sappiamo quanto l’infermiere a partire dagli anni 90 sia cresciuto a livello formativo e giuridico :
- D.M. 739/1994: istituisce la figura dell’infermiere responsabile dell’assistenza infermieristica generale, figura che partecipa all’ individuazione dei bisogni di salute della persona e della collettività, identifica i bisogni di assistenza e formula i relativi obiettivi, pianifica, gestisce e valuta l’intervento assistenziale infermieristico, agisce sia individualmente sia in collaborazione con gli altri operatori sanitari e sociali;
- Legge 42/1999: definisce l’infermiere professionista sanitario ed il proprio campo di azione criteri guida (profilo, ordinamento didattico, codice deontologico) e criteri limite (competenze previste per la professione medica e delle altre professioni sanitarie)
- Legge 251/2000: definisce l’autonomia professionale ed istituzionalizza l’assistenza personalizzata
- Legge 43/2006: conferma e valorizza la centralità dei percorsi formativi accademici post base per acquisizione professionalità e competenza.
Senza comunque dimenticarci il DPR 27 marzo 1992 dove all’ Art. 10 già riconosceva ampio spazio di azione all’infermiere dell’emergenza urgenza e definiva le prestazione del personale infermieristiche …..fino al famigerato comma 566 dove viene esplicitato “Ferme restando le competenze dei laureati in medicina e chirurgia in materia di atti complessi e specialistici di prevenzione, diagnosi, cura e terapia, con accordo tra Governo e Regioni, previa concertazione con le rappresentanze scientifiche, professionali e sindacali dei profili sanitari interessati, sono definiti i ruoli, le competenze, le relazioni professionali e le responsabilità individuali e di équipe su compiti, funzioni e obiettivi delle professioni sanitarie infermieristiche, ostetrica, tecniche della riabilitazione e della prevenzione, anche attraverso percorsi formativi complementari”.
Per cui se la mission del sistema di emergenza urgenza è quello di assicurare a tutti i cittadini la migliore risposta possibile nelle emergenze urgenze e non impiegando tutte le risorse disponibili, perché non diversificare i bisogni e coloro che possono rispondere a tale bisogno? Il Problema non deve essere quale professione soddisfa il bisogno ma la competenza di chi lo soddisfa, competenza agita e soprattutto “riflessiva”. Competenza intesa non come semplice compito che siamo tenuti a svolgere, ma come l’insieme di capacità, abilità e conoscenze. Non bisogna fermarci al concetto di compito e mansione, nella stessa Delibera Regionale si ricorda come molti atti nascono medici e si trasformano in attività sanitarie non più strettamente professionali, se ci fermiamo al tecnicismo ci sarà sempre qualcuno che ci sostituirà, pensiamo agli apparecchi che eseguono il massaggio cardiaco, ma che nello stesso tempo liberano “mani” e soprattutto “menti” a coloro i quali devono fare ben altro. Che il percorso see and treat sia una modalità organizzativa efficace per quanto riguarda la presa in carico, la completezza del percorso, l’unità della figura di riferimento, la rapidità di prestazione stato, la diminuzione dei tempi di attesa e di permanenza, la soddisfazione degli utenti e degli operatori è ampiamente dimostrato, così come siamo consapevoli che non tutti gli infermieri siano “tagliati per il see and treat, infatti le caratteristiche che deve possedere un infermiere di see and treat sono: esperienza, buon senso, capacità di accettare la responsabilità, di riconoscere i propri limiti e di chiedere aiuto.
Ma allora perché stenta così a partire in modo uniforme a livello istituzionale e nazionale? E soprattutto… cosa abbiamo di diverso dagli inglesi?
Durante la fase di sperimentazione da noi svolta era stato percepito che la base della riuscita era stata la massima collaborazione tra medico ed infermiere, la cooperazione, la parthenersip, il principo di affidamento e di garanzia per usare termini più giuridici ed forse è proprio questo che ci diversifica dagli inglesi, loro sono anni che studiano il fenomeno della collaborazione tra medici ed infermieri per soddisfare i bisogni di salute, da una revisione bibliografica, ormai anche datata 2007, è stata evidenziata l’importanza che assume il rapporto tra figure professionali nella risposta ai bisogni di cura e assistenza al paziente e come la cooperazione può migliorarne positivamente i risultati. Ma anche in Italia è stato fatto qualcosa, in un’ indagine condotta nel 2014 dall’ Erus (Istituto di Ricerche Economiche e Sociali) si è dimostrato che il 94,2% dei medici si ritiene soddisfatto del rapporto con gli infermieri e che la più alta percentuale di medici soddisfatti (96,8%) si ritrova proprio nell’emergenza urgenza ed inoltre 8 medici su 10 approvano l’introduzione dell’ infermiere specialista, a “ volerli” nel proprio reparto sono soprattutto gli internisti (75,5%) ed i neonatologi/pediatri (74,3%).
In conclusione possiamo dichiarare che questo modello organizzativo, ha dimostrato un miglior utilizzo delle risorse professionali, una riduzione dei tempi d’attesa per i codici minori con diminuzione del rischio di sovraffollamento della sala d’attesa, maggiore autonomia e responsabilità all’infermiere in linea con il profilo professionale. I punti di forza dello studio sono stati: collaborazione medico infermiere; bench marking con altre strutture od esperienze similari e percepita soddisfazione della popolazione. Infine quindi si può sostenere che ogni professionista ha la propria professionalità, che ha il dovere morale e deontologico di poter esprimere in una visione di sistema ed organizzazione con possibilità di valorizzazione professionale dell’uno e dell’altro , non il semplice trasferimento di attività e mansioni. Solo in questo modo riusciremo ad essere “Grandi Professionisti”.
“Non è perché le cose sono difficili che non osiamo farle, è perché non osiamo farle che diventano difficili”
Seneca