ORBETELLO – «Rimandarli indietro significa condannarli a morte e, non aiutarli negli sbarchi, significa far morire anche tanti bambini che scappano insieme ai propri genitori. Ho visto piccoli, anche di pochi giorni, tutti bagnati alla temperatura di 3 gradi arrivare su dei gommoni che nel migliore di casi avevano già imbarcato 50 centimetri di acqua. E mi si stringeva il cuore, a me che sono anche mamma, ma allo stesso tempo ero felice di aiutare quella gente là dove non arriva nessuna organizzazione governativa.»
Questi alcuni dei pensieri sparsi e delle emozioni con i quali si racconta a noi del Giunco.net, Alessandra Salvaterra, una cittadina orbetellana fresca reduce da un esperienza di due settimane di volontariato a Lesbos, località nell’isola greca di Mitilene, dove quotidianamente arrivano circa 1000 rifugiati in condizioni limite, con tutte le condizioni metereologiche e molto freddo.
Lei, un ragazza che negli ambienti lagunari non ha mai nascosto i suoi ideali di estrema sinistra, ha ascoltato solo il suo cuore ed è partita per quei luoghi insieme ad un amico di Roma, incontrandosi poi con altri volontari, soprattutto spagnoli, contattati tramite i social network e con i quali ha diviso un piccolo alloggio durante le due settimane di attività ininterrotta: «Sono sempre stata interessata alle vicende di queste persone che, per scappare, rischiano di morire – dice lei – sono per lo più siriani, ma anche pakistani, afghani, iraniani e nigeriani che si imbarcano su dei piccoli canotti stracolmi e tentano di attraversare quelle 8 miglia di mar Egeo che dividono Lesbos dalla Turchia».
«Ho scelto di andare là dopo aver trovato dei contatti su Facebook con dei compagni greci e visitando tanti altri gruppi social sul volontariato per i rifugiati. Laggiù – continua lei – esistevamo solo noi, nessuna organizzazione governativa, pochi Medici di Senza Frontiere che cercavano di aiutare questa gente a sbarcare, asciugandola e rivestendola.»
Alessandra è appena tornata da questa esperienza, domenica scorsa, ma non riesce a dimenticare, appare ancora molto coinvolta mentre ci racconta quei frangenti in cui era chiamata a quel compito che lei stessa si era scelta: «Io mi sono occupata di aiutare la gente negli sbarchi, insieme ad altri volontari baschi del “G fire bomberos CyL”, con i quali eravamo in contatto tramite la chat di un gruppo Whatsapp – insiste Alessandra Salvaterra – avevamo il compito di individuare le imbarcazioni ed indirizzarle, quando possibile, verso i punti più agevoli dell’isola. Poi aiutavamo quella gente a scendere e li conducevamo in uno dei 4 campi di accoglienza dove venivano asciugati, rivestiti e curati da altri volontari».
«Bambini piccoli in gran quantità, che si gettavano nella traversata insieme ai genitori, con salvagente finti o con piccoli bracciali da piscina. Una esperienza che mi ha fatto toccare con mano quella realtà su cui quotidianamente si discute senza forse sapere e vedere. Ed ho capito che, in Europa, stiamo fallendo proprio perché non ci sono risorse per gli aiuti umanitari e perché non si riesce a dare aiuto a certa gente che rischia di morire, e che fugge forse perché in patria la morte sotto le bombe è inevitabile. Prima di partire ero molto combattuta – conclude l’orbetellana – è stata una scelta sofferta, ma adesso non me ne pento, sono felice di aver dato almeno un piccolo aiuto.»