Torna la nostra rubrica Capo Nord. Nella puntata di questa settimana Giulio Gasperini ci porterà nella capitale più romantica del mondo: Parigi.
Camminando e camminando, Parigi…
Trent’anni ti ci sono voluti per mettere piede a Parigi; trent’anni di rimandi, di ripensamenti, di opportunità concesse ad altre geografie e altri angoli di mondo. Trent’anni, ammetti, anche di pregiudizi e di ostinata prevenzione. Ma i pregiudizi, si sa, sono fatti per esser combattuti e se possibile sconfitti. Sicché Parigi diventa meta inevitabile, una meta non più posticipabile.
Fiori.
La prima cosa che stupisce, a Parigi, sono i fiori. Tanti, ovunque. Ci sono fiori sui davanzali delle finestre, fiori nei prati, fiori sui tavoli dei bar, fiori alle vetrine, fiori ovunque. Fiori fiori fiori. Oltretutto, curatissimi. Colorati e rigogliosi. Camminando, così, ti scordi anche che Parigi non è solo questa. Ti ricordi i titoli di giornali di anni fa, quando la periferia – la banlieue – esplodeva e bruciava di disagio sociale e presunto odio razziale. Sai bene che Parigi è enorme, che quella percorsa camminando e camminando è una Parigi particolare, la Parigi dove i problemi sono pochi e non insormontabili; sai perfettamente che il disagio cova altrove, che la Parigi nuova, quella che si sta depositando, è altrove. Ma non puoi fare a meno di meravigliarti di tanta cura e raffinatezza; perché, dopotutto, vieni da città dove neanche i luoghi più centrali si salvano dall’incuria e dalla sciatteria, che è il sintomo più immediato del malessere e della più imperdonabile noncuranza.
Hai voglia di visitare il Marché aux fleurs, sull’Ile de la Cité, che dal 1808 popola place Louis Lépin di colori e profumi intensi: ogni tipo di fiori, di sfumature, di nuances. Dalle orchidee alle rose. Lo trovi delizioso; uno spettacolo mozzafiato, soprattutto in una giornata di grigie nubi e di pioggerella leggera. Uno sguardo su altri tempi e altre velocità. Quasi un episodio da romanzo, quando la memoria ti torna a quella prima pagina che ti ha da sempre folgorato, quell’incipit (“Mrs. Dalloway said she would buy the flowers herself”) così pieno e completo che, anche se ambientato altrove, prende comunque un valore potente. E immagini donne che abbracciano mazzi esuberanti, chiazze chiassose di colori, e che se ne vanno persino un po’ distratte al loro appuntamento col destino.
I fiori sono ovunque, a Parigi. Incredibilmente. Un’attenzione precisa e puntuale, una dedizione oltremodo stacanovista. Come lungo il Jardin des Tuileries o dentro il Jardin du Luxembourg, dove i lavori di risistemazione del giardino ti rimandano a quelle aiuole così spelacchiate e trascurate che incontri ogni giorno nella tua città, camminando per andare a lavoro. E pensi che basterebbe così poco, eppure così poco, per dare un tocco di esistenziale bellezza all’ennesima giornata uggiosa.
Montmartre.
Sono oramai ridotti a un rettangolo verde, cintato di ferro e abbellito per i turisti, ma i vigneti rimasti a Montmartre sono una delizia per gli occhi e per la fantasia, quando ci si ferma a immaginare che quelle colline tutte attorno erano ricoperte di splendidi vigneti, tra i quali passeggiavano e discutevano artisti e pittori bohémiens in fuga dalla città in nome dell’arte. Quello che rimane oggi non è neanche originale, ripiantato soltanto negli anni ’30 da un appassionato conservatore della memoria del quartiere; ma ugualmente è emozionante osservarlo e concedersi l’opportunità di gettare uno sguardo su un pezzo di storia lontana ma così amata, leggendaria e mitica.
Un’era protagonista di opere e arie liriche, di discussioni e romanzi, di poesie e di entusiasmi di arte profonda. Anche gli abitanti di Montmartre sono così: legati a una loro provenienza che forse poco ha di parigino. E può capitare che mentre stai per avvicinarti, in Place Dalida, a un (effettivamente orrendo) mezzo busto della cantante calabrese, trascinato dall’isteria del turista fotografo, una signora anziana ma impeccabile nel suo trucco e tailleur ti gridi qualcosa, in un inglese arrotondato ma preciso. Non farlo! Perché fotografare quella brutta bruttissima statua? Perché tutto sommato è una cantante italiana, tu cerchi di spiegarle; ma la signora non ascolta. Il suo intento è convincerti, non essere convinta. Sicché ti arrendi – quasi subito a dir la verità – perché chiaramente la ragione è dalla sua parte. E lentamente, come se non facesse altro che passare la giornata lì, in agguato dell’ennesimo turista demente che non guarda attorno ma concede sguardi e scatti soltanto a quell’orrendo busto, comincia a raccontare la sua storia, la storia di una abitante di Montmartre.
Alterna inglese e (più delizioso a sentirsi) francese, ma tu capisci tutto lo stesso, perché la signora spiega anche con gli occhi, con le mani, con la sua stessa presenza. Ti fa voltare, ti indica la stradina che da Place Dalida sale a Montmartre, ti dice che se vuoi proprio fotografare qualcosa quello è l’angolo, la prospettiva più meritevole, quella che non puoi veramente lasciarti scappare. Lasciassi perdere quel brutto busto! Qui, scatta da qui. Da questa angolazione. E poi ti racconta che lei, quella stradina, se la ricorda ancora di terra, di quel bel bruno dorato che tanto, a te, ricorda le colline della tua Toscana. E dice di essere contenta, tanto, perché quando l’hanno asfaltata le hanno donato un colorito simile alla terra: aboliti questi brutti sampietrini della piazza (li calpesta quasi con rabbia, con sdegno), hanno cercato di rendere la nuova strada più simile a quella vecchia, rimpianta. Ti racconta che se ne ricorda perché era lì, da tanti lustri. E poi ti svela i segreti di Montmartre, perché è arrivata ad abitare qua a 9 anni; era il 1933. Da allora, non se n’è più andata. Dando uno sguardo attorno capisci subito il perché: è un quartiere che ti affascina soltanto perché esiste, senza particolari clamori. Ti spiega, ancora, di girare l’angolo, lassù, all’altezza di quel palazzo: là vicino c’è una statua, particolarissima: una uomo che attraversa un muro. È di Jean Marais, ed è lì, dal 1989, in omaggio a Marcel Aymé, l’autore di un romanzo che si intitola “Le passe-muraille”, del 1943.
La statua rappresenta il momento in cui Monsieur Dutilleul, il passa-mura, rimane bloccato a causa dell’amore per una bella ragazza. Parigi è così: ospita infiniti luoghi delle letterature. È attenta, Parigi, alla potenza delle arti e in particolare delle lettere. Non c’è un solo luogo, un solo angolo, che abbia rifiutato la sua identità letteraria. Loro la pensano così; loro!
Continua…