a cura di Giulia Carri
STATI UNITI – Guido Tamburro ha 35 anni, è di Grosseto e ha scelto di diventare un cuoco internazionale. Dall’Estremo Oriente agli Stati Uniti ha lavorato nelle migliori cucine del mondo, mettendo insieme la tradizione della nostra cultura culinaria con i sapori dei cinque continenti.
Hai una formazione da orientalista, come è nata l’idea di specializzarti nella ristorazione?
“La cucina è sempre stata una mia grande passione. Quando ero in Giappone per motivi di studio ho approfondito e appreso la loro cultura culinaria. Nel 2009 le circostanze della vita mi hanno spinto a professionalizzare questa passione prendendo una qualifica vera e propria.”
Dove hai studiato?
“A Le Cordon Bleu College of Culinary Arts, del distretto di Miami, negli Stati Uniti. La scuola è in una piccola cittadina vicino Miami, Miramar.
Ho abitato per un anno a Pembroke Pines, città di 160.000 anime ed un aeroporto. Ho optato per fare il corso intensivo di 12 mesi di scuola più 3 di internato.
Perché hai scelto questa scuola?
“Volevo una qualifica culinaria internazionale, ma, in Italia, le scuole che ti professionalizzano in questo campo permettono l’accesso solo a chi già ha esperienza in ristoranti importanti, o proviene da scuole alberghiere. Ho quindi cercato all’estero, paesi anglofoni, e la mia scelta finale è stata l’America.”
Come è stato vivere un anno lì?
“Professionalmente molto bello, umanamente ho compreso cosa vuol dire essere un immigrato. Ho fatto una lunga trafila burocratica per entrare ufficialmente nel loro sistema. Solo raccogliere tutta la documentazione per ottenere il visto è stato impegnativo, ci sono voluti quasi due mesi; alla fine però sono riuscito a presentare tutto, un timbro e via! La scuola è stata molto bella, ma molto impegnativa. Alle sei di mattina ero già in cucina, coltello in mano. La cosa più dura è stato essere italiano..”
In che senso?
“Essere italiano è un’arma a doppio taglio negli USA. Da una parte è una cosa molto fica, il nostro stereotipo funziona: diverte e garantisce una sapienza in campo artistico e culinario apprezzata da tutti. Dall’altra, però, lo stesso stereotipo è bollato dei peggiori luoghi comuni, ed io mi chiamo anche Guido… In America chiamano Guido l’italiano coatto! A volte è stato complicato diciamo. Nonostante questo, trovo la società americana migliore, per me, rispetto alle altre anglofone. Sono inseriti in un sistema rigido e pieno di regole, ma sono elastici e dinamici nel confronto, cosa che non ho riscontrato né in Inghilterra né in Australia.”
Per ottenere la qualifica cosa hai fatto?
“Ho frequentato tutti i corsi del College, conosciuto gente splendida, istruttori compresi. C’è stato chi mi ha fatto ridere e chi mi ha fatto piangere. Per concludere il corso mi aspettavano 3 mesi di internato; nonostante ci sia stato chi mi abbia scoraggiato nella scelta dicendomi fosse impossibile, ho scelto Tokyo e sono riuscito ad entrare al Park Hyatt… Sì, quello del film Lost In Translation. Sinceramente vado orgoglioso di questa cosa: sono stato il primo bianco ad entrare nelle loro cucine per così tanto tempo come studente e ho anche inconsapevolmente cucinato per Bon Jovi. Ho lasciato casa nel settembre del 2009 e son tornato a gennaio del 2011.”
E poi?
“Poi ho cominciato a fare avanti e indietro tra l’Italia e il resto del mondo. Varie esperienze italiane nel 2011 tra cui l’Andana qui in Maremma. Nel 2012 ho fatto da consulente ad un caro amico e collega ad Istanbul accompagnandolo anche a Barcellona. E’ stato un anno movimentato. Trovando un po’ di ‘tregua’ dopo l’Australia ho lavorato come cuoco a Castello Banfi e per questo ringrazio lo Chef Riccardo Cappelli. Tregua è ironico, ovviamente, perché non è dietro casa, ma sono molto soddisfatto dell’esperienza.“
Da cuoco professionista maremmano, come vedi la situazione del settore nel territorio?
“La crisi mondiale ha toccato anche questo settore e spesso, pur mantenendo un’autenticità di piatti, la qualità ne risente. Per abbattere i costi molti risparmiano sulla qualità delle materie prime, scegliendo prodotti congelati o in parte già preparati. Sono pochi i ristoranti o le sagre che non accettano tali compromessi. Nemmeno io li accetto e la gente odia andare a mangiar fuori con me perché ho sempre da ridire… Purtroppo per molti piccoli ristoranti è obbligatorio fare questo o tagliare il personale, perché non ce la fanno ad andare avanti.”
Come potrebbe la Maremma aprirsi ad un mercato più grande e internazionale?
“Vedo difficile che possa accadere a breve termine. Dobbiamo modificare il nostro sistema di pensiero, per aprirsi ad un mercato internazionale con un forte potere d’acquisto, che in questo momento è rappresentato dalla Russia e dalla Cina. La sfida, parlo in cucina, è mantenere la tradizione della buna cucina italiana, ma innovandoci integrando anche ingredienti che per i più sono sconosciuti per andare incontro ai gusti del cliente straniero. C’è chi parla di cucina fusion, per me è globalizzazione: riuscire a creare un piatto sì italiano, ma con tutti gli ingredienti possibili che il mondo offre: questa è la ricerca che come cuoco mi appassiona di più.”