GROSSETO – L’asterisco *, la schwa, ossia la ə capovolta, oppure non scrivere l’ultima lettera di alcune parole per non indicare il genere. Sono tanti gli espedienti utilizzati per adattare la lingua scritta ad esigenze sociali in continua mutazione.
Spesso utilizzati per semplificare le cose, e rivolgersi a tutt* che sta sia per tutti che per tutte, non sempre nella ricerca di un neutro (che la nostra lingua purtroppo non ha), più spesso per rendere meno maschilista una lingua che declina tutto al maschile.
Per intendersi: vogliamo indicare le infermiere e gli infermieri di un ospedale? Scriveremo semplicemente infermierə. Oltre a questo uso, per rendere un plurale più inclusivo per il sesso femminile, c’è l’altro, quello che porta a ignorare o non indicare il genere. Sono anatomicamente un ragazzo, ma non mi va di identificarmi nel genere maschile, parlando di me stesso potrei dire che sono simpatic*, cocciut*, bell*…
Questa forma non è la prima: in passato si era provato con la U e la X in fondo. Dal 2015 la schwa va per la maggiore. Ultimamente alcune amministrazioni comunali italiane hanno scelto la ə capovolta anche in alcuni documenti ufficiali, anche perché l’asterisco è visivamente più impattante. Tant’è che la ə si trova già in alcuni libri.
Diciamo che quello che sarebbe semplice in forma scritta (al netto delle polemiche, ovviamente) lo è meno quando si parla. E questo è, credo, il vero limite di schwa e asterischi, limite che non ha fermato la ricerca per chi ancora punta ad un linguaggio inclusivo.
Anche se in molti sostengono che il suono dello schwa esista già in molti dialetti italiani (si troverebbe ad esempio nel napoletano jamme). Insomma una e accennata e meno marcata.
Se dunque la lingua italiana ha tutte le caratteristiche per accettare cambiamenti di questo tipo più complesso è capire se gli italiani, o una parte di loro, sono inclini ad accettarli questi cambiamenti.
Alle elementari ci insegnavano: «Se si unisce un gruppo di dieci bambine, femmine, ad un gruppo di dieci bambini, maschi, si ottiene un gruppo di 20 bambini, perché nel maschile si ricomprendono anche le femmine».
Ma se questo andava bene 40 anni fa, quando io facevo le elementari, può non andare più bene ora. Sì perché il linguaggio si evolve con quella società che si ritrova a rappresentare. Il linguaggio è l’identità stessa di un popolo.
Oltre a questo c’è un altro problema, che non ha nulla a che fare con la tanto temuta “teoria del gender” (che poi cosa sarà?), semplicemente ci sono persone, spesso giovani, che non si sentono di essere ricomprese in categorie che li vorrebbero definire sessualmente quando sono ancora adolescenti, quando ancora devono costruirsi tutto il loro futuro.
Ma voi lo sapete quanti ragazzini e ragazzine (o quantə ragazzinə) di 12-14 anni scelgono nomi “neutri” con cui farsi chiamare dagli amici? Alex, Axel, Emi… nomi che vanno bene per lui e per lei mentre ancora sono alla ricerca di se stessi? O adulti che hanno deciso che preferiscono restare nel mezzo, o semplicemente non hanno voglia di dire agli altri quel che sono.
Ci sono i puristi della lingua, che dicono che no, non esistono nell’italiano e basta, ma in fondo, verrebbe da dire, se garantire più diritti ad alcuni non ne toglie ad altri, che male può fare?