CARLO LEVI
“CRISTO SI E’ FERMATO AD EBOLI”
EINAUDI, TORINO, (1943) 2014, pp. 235
In questa domenica in cui la guerra continua ancora, che ne ho perso il conto, parliamo di un libro il cui titolo è passato in antonomasia, il cui periodo prelude alla tragedia della seconda guerra mondiale. Il libro, come molti moderni, in cui ci imbattiamo in queste scorribande domenicali, si colloca al confine tra vari generi.
Il lettore di questa rubrica ha imparato che è una marca dell’allegoria. Per molti versi è un libro di memorie, autobiografico, ma per altri è un saggio di antropologia o di sociologia con aspetti nettamente politici e per altri ancora è una narrazione romanzesca.
L’autore, Carlo Levi, è di formazione un medico, che ha esercitato poco la sua professione; piuttosto ha scelto l’arte, la scrittura e la pittura a scuola di Casorati, a cui giunge attraverso la frequentazione del circolo liberale di Gobetti e attraverso il quale scopre nell’esilio parigino il movimento fauvista e Modigliani. Un’esperienza culturale del tutto avversa a quella fascista allora dominante, che approda politicamente alla fondazione del movimento “Giustizia e libertà”.
Da Torino il regime fascista lo condannò al confino in Lucania negli anni intorno alla guerra d’Africa, quando il conflitto richiedeva un maggior controllo del paese. Trascorse nel paesino, chiamato nel libro Galliano (Aliano nella realtà), un anno tra il 1935 al 1936, liberato in anticipo sulla condanna a tre anni per la conquista di Addis Abeba. Questo avvenimento conclude il libro, che racconta l’intero anno trascorso in Lucania da un’estate all’altra. Il titolo è spiegato nella prima pagina. Il protagonista incontra “quella mia terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà”.
Dicono i contadini: “Noi non siamo cristiani, … Cristo si è fermato a Eboli. Cristiano vuol dire, nel loro linguaggio, uomo: e la frase proverbiale che ho sentito tante volte ripetere … non siamo cristiani, non siamo uomini, ma bestie, bestie da soma”. Questo tratto della Lucania, arido e argilloso, infestato dalla malaria all’epoca, assolato e polveroso d’estate, dilavato e franoso d’inverno, è un posto abbandonato, che sta in un oltre fuori della storia.
Il tempo dei contadini è un “tempo immobile”, sulla cui considerazione si conclude il libro, cioè non scorre. Le stagioni si ripetono una uguale all’altra immutabili con riti antichissimi, intrisi di magia, che scandiscono la vita degli uomini in un rapporto con la natura invariato, in cui uomini, donne, animali e spiriti stanno in un unico continuum. Ogni anno è “identico al precedente, e a tutti quelli che sono venuti prima, e che verranno poi, nel loro indifferente corso disumano”. “Nell’uguaglianza delle ore, non c’è posto né per la memoria né per la speranza: passato e futuro sono come due stagni morti”.
Il domani è un futuro fuori da tempo, un “crai”, che deriva dal latino cras-crai, un vocabolo che si usa ancora dalle mie parti, “quel vago ‘crai’ contadino, fatto di vuota pazienza, via dalla storia e dal tempo”. Il protagonista, considerato dai contadini “un esiliato” come ai tempi dei Borboni, accompagnato solo da un cane, viene accolto sulla piazza del paese dalla piccola comunità dei “signori”, che gli ripugna per l’ arte “piccolo-borghese” di espropriare i contadini e finisce per simpatizzare con questi ultimi, che si spezzano la schiena dall’alba al tramonto su una terra arida. Prende una casa in paese, che era stata di un ricco prete, e per il lavoro domestico gli viene consigliata Giulia, “una strega contadina”, che lo accudisce e gli insegna le pratiche magiche, che sono una sorta di medicina tradizionale. Possono fare i servizi ad un scapolo solo le streghe, cioè “quelle donne che fossero … esentate dal seguire la regola comune; quelle che avessero avuto molti figli di padre incerto, che senza poter essere chiamate prostitute (ché tale mestiere non esiste in paese), facessero mostra di una certa libertà di costumi, e si dedicassero insieme alle cose dell’amore e alle pratiche magiche per procacciarlo”. Sono donne con un certo margine di libertà. La descrizione, che Levi fa di Giulia, è di “una donna alta e formosa, con un vitino sottile come quello di un’anfora, tra il petto e i fianchi robusti” con un viso di “un fortissimo carattere arcaico” né greco, né romano, “ma di una antichità più misteriosa e crudele”. “Era una donna antichissima, … la sua sapienza [era] una specie di fredda consapevolezza passiva, dove la vita si specchiava senza pietà e senza giudizio morale … Era come le bestie, uno spirito della terra”. Questa immagine ricorda quella della natura dell’operetta morale di Leopardi “Dialogo con la natura e di un islandese” (1824).
Emerge, quindi, in questa e in altre figure femminili, un fondo inconscio primordiale a volte libidico e a volte ostile a secondo dei vari momenti del racconto. Levi, medico rinnovato, incrocia gli insegnamenti magici della strega con il suo sapere moderno, acquisendo grande popolarità tra i contadini. Viene indotto a riprendere la pratica medica, perché i medici del luogo, detti “medicaciucci” (cioè medici-asini), non sanno nulla della medicina e sono presi solo dalla concorrenza per estrarre denaro dai contadini malati. Pensa di poter fare qualcosa per estirpare la malaria e presenta un piano articolato, che il podestà fascista finge di sostenere, inviandolo alla prefettura di Matera, cosa che gli vale tante belle parole e alla fine il divieto di esercitare la professione. I contadini si armano e minacciano di uccidere il podestà e bruciare il municipio in una delle tante rivolte represse nel sangue.
Il protagonista riesce a fermare la rivolta che diventerà l’occasione di una rappresentazione teatrale popolare satirica che metterà alla berlina le autorità. Sarà indotto per contadini, ormai diventati suoi amici, ad esercitare di nascosto, tollerato dalle autorità e mal visto dagli medici concorrenti del paese, stabilendo con loro un legame affettivo, che sarà difficile sciogliere al momento della partenza.
Verso la fine del libro vi sono alcune pagine politiche, un’invettiva contro “la piccola borghesia dei paesi”, definita “una classe degenerata, fisicamente e moralmente”, che ha contagiato l’intero paese e che è destinata a permanere anche nelle “nuove istituzioni che seguiranno il fascismo” . Sembra una visione profetica, anche se Levi spera in “una rivoluzione contadina”, che potrà trasformare lo stato centralista e vessatorio attraverso “l’insieme di infinite autonomie, una organica federazione”. Ad essa affida la soluzione delle tre piaghe che per lui costituiscono la questione meridionale: cioè la coesistenza di due diverse civiltà (quella contadina e quella borghese), la liberazione dalla miseria e l’abolizione di ogni potere dei grandi proprietari e della piccola borghesia.
E’ stato scritto di lui: “Seguace di Gobetti e del suo liberalismo illuministico e democratico, Levi era aperto anche alla filosofia irrazionalistica di Bergson, al simbolismo, agli studi di mitologia e di etnologia”. Questa “doppia prospettiva” è evidenziata anche nel breve saggio di Jean-Paul Sarte, posto come introduzione al volume di Einaudi. Levi risente della corrente del neorealismo degli anni dell’immediato dopoguerra con il bisogno di tornare a raccontare la realtà dopo la sbornia retorica del fascismo, ma con un “doppio rifiuto”: “egli respinge contemporaneamente l’oggettività di maniera e la pura soggettività”.
Lo stile nitido della scrittura di Levi si ripete nella struttura dei capitoli, non numerati, che si ripete: parte da una descrizione del paesaggio, insieme allo stato d’animo dell’autore, in cui realismo e soggettività sono intimamente connessi, sviluppa un particolare evento narrativo, quelli che Sartre indica come “aneddoti”, in cui si manifesta “l’universale singolare”, e chiude con alcune riflessioni di ordine generale, antropologico, sociologico o direttamente politico. Ciò che ne esce nel complesso è quello che Calvino nell’altro saggio introduttivo definisce “una selva di figure allegoriche”.
A mio avviso l’allegoria moderna, che permea il libro, fa emergere gli aspetti primitivi della condizione umana, che la modernità mette fuori dalla storia.