CORMAC MCCARTHY
“LA STRADA ”
EINAUDI, TORINO, (2006) 2007, pp. 218
Mentre i potenti del mondo, Putin in testa, parlano tranquillamente della terza guerra mondiale come se niente fosse, nel novero dei rischi, e dell’uso delle armi nucleari e tutti guardiamo ai rischi connessi alle centrali atomiche dell’Ucraina sotto le bombe russe, propongo ai lettori un libro potente, che presenta la grande allegoria di un mondo post-atomico, cioè della possibile fine della vita per mano dell’uomo. Il romanzo ha vinto il Pulitzer e nel 2009 ne è stato tratto un film.
Dello stesso autore è noto l’altro romanzo, “Non è un paese per vecchi” (da cui è stato tratto pure un film nel 2007), che era era un libro sulla sopravvivenza metropolitana, mentre questo è un libro di sopravvivenza e basta. E’ il discorso portato al limite secondo la grande capacità dell’autore: cosa sopravvive dell’umano quando la terra è morta e il cielo è vuoto, cioè senza Dio? Il libro è citato come “exemplum” in un saggio sul padre dell’ultimo lacaniano di successo, Massimo Recalcati, che mi sembra abbia molti debiti con “La strada” (“Cosa resta del padre? La paternità in epoca opermoderna”, 2017).
Un padre e un figlio sono sopravvissuti all’incenerimento della natura, che non si capisce se è stata opera degli umani o di un cambiamento del clima o del sole, come da certi passi potrebbe sembrare. Sono sopravvissuti solo gli umani. L’indeterminatezza corrisponde al senso di estraniamento totale del libro. La madre del bambino ha preferito morire, essere una “puttana”, che ha scelto la morte come amante ed è venuta meno al suo impegno di fedeltà coniugale. Questo padre senza nome, che rappresenta tutti i padri e tutti i buoni, di solito dice al bambino, anche lui senza nome, di non sapere, ma ha una grande curiosità di sapere per continuare a vivere e un grande senso del dovere, dover andare avanti, verso una meta, il sud più caldo, dove non arriverà mai.
Morirà prima avendo trasmesso al figlio che bisogna sopravvivere e andare avanti perché loro “sono i buoni” e perché “portano il fuoco”. E’ chiaro che il fuoco di cui si parla non è quello che ha incenerito il pianeta, né quello che padre e figlio accendono tutti i giorni per vincere il freddo della notte. Non è neppure il fuoco dove gli altri umani sopravvissuti, che si incontrano nel racconto, cucinano i propri figli per cannibalizzarli. E’ il fuoco di Prometeo. Qui attribuisco al romanzo una delle allegorie della mia religione privata, che si riferisce al bisogno di conoscere che anima il libro, alla scintilla umana che deve sopravvivere, alla strada che bisogna fare.
E in qualche modo sopravvive perché, morto il padre, il bambino troverà un’altra famiglia “buona”, che non mangia i propri simili. Il libro si chiude con un’ambigua e tenue speranza di vita: i “salmerini”, i pesciolini che vivono nelle forre e che portano un labirinto disegnato sulla schiena, c’erano prima degli umani e non si dice, perché il finale rimane sospeso affidato all’interpretazione del lettore, se ci saranno anche dopo. Il libro è in qualche modo religioso, anche se uno dei personaggi che padre e figlio incontrano nel loro viaggio porta uno dei nomi più antichi di Dio. Ely è rappresentato come un vecchio ossuto, che non si vuole più compromettere con la storia umana forse a significare che lo ha fatto già una volta con il proprio figlio prediletto e gli è bastato, cioè non vi è speranza oltremondana. La religione è quella del padre, che personalmente conosco molto bene: è il padre con cui si continua a parlare anche dopo che non c’è più fisicamente; una religione che non promana dall’alto, ma che sta nel legame stesso tra padre e figlio nella trasmissione del senso della vita, perché “religio” è appunto etimologicamente “il legame”.
Del resto le religioni primitive sono centrate sul culto degli antenati, di chi è venuto prima ed ha trasmesso la vita, sono religioni della vita. In questo libro la religione della vita è trasmessa per via paterlineare contraddicendo la biologia per cui la vita è trasmessa dalle madri. E’ una religione senza Dio, come quella che ipotizza Recalcati, ma che io penso come il passaggio dalla religione fondata su Dio al codice integralmente umano e bastevole a se stesso.
Mi sembra che il senso secondo, la morale, del libro sia ripristinare una figura ormai quasi scomparsa dall’orizzonte della cultura occidentale, che è appunto il padre. L’alleanza tra padre e figlio è il senso allegorico di ciò che manca al mondo moderno contemporaneo, che insieme si piangono oggi sia le madri che i figli. Tale allegoria, al solito, rappresenta l’emersione di un inconscio in cui l’Edipo, la concorrenza mortale tra padre e figlio, anela alla sua risoluzione positiva. Il padre muore, ucciso da cattivi, ma riesce a trasmettere il senso della vita al figlio.