PRIMO LEVI
“SE QUESTO E’ UN UOMO”
EINAUDI, TORINO, (1946) 2011, pp. 178
In occasione della giornata della memoria dell’olocausto nazista e fascista dei campi di sterminio e delle leggi razziali della dittatura mussoliniana del prossimo 27 gennaio propongo questo libro capitale.
Questa edizione ha il vantaggio di riportare in appendice le domande, rivolte a Primo Levi negli incontri con gli studenti con le sue risposte, che poi andranno a far parte de “I sommersi e i salvati” (1986). Inoltre c’è una preziosa “Postfazione” di Cesare Segre, uno dei curatori delle opere di Levi, sufficientemente esaustiva, dal titolo significativo, “Auschwitz, orribile laboratorio sociale”, che coglie uno dei temi principali del libro.
Tenuto conto della fama internazionale del libro, opera prima di Levi, sembra impossibile che non fu facile pubblicarlo. Scritto subito a ridosso del ritorno dal lager dell’autore, che ne trasse ragione di vita, fu proposto all’editore Einaudi da Franco Antonicelli nel 1946 e rifiutato, forse perché all’epoca prevaleva più il bisogno di dimenticare l’orrore della guerra. Questa è la spiegazione che ne da lo stesso Levi in “I sommersi e i salvati”. Il tema della memoria e dell’oblio è centrale in tutta la vicenda. Venne pubblicato da Einaudi solo nel 1958.
Il libro racconta la storia dell’internamento nel lager di Levi a partire dal tradimento che lo consegna giovane partigiano alla milizia fascista, all’internamento nel campo di concentramento italiano di Fossoli, al viaggio di trasferimento nel vagone piombato ad uno dei campi di Aushwitz, fino alla sua resistenza per sopravvivere e per testimoniare. La storia si dipana per 17 capitoli, che hanno un titolo, ma non una numerazione e che – come sostiene Segre – sono i cerchi concentrici di un viaggio all’infermo, che tiene presente la lezione di Dante. Nonostante il materiale autobiografico e la descrizione dell’esperienza non si può ascrivere il libro al genere diaristico, di cui esistono molti esempi tra i sopravvissuti del lager.
La caratura letteraria è fuori di ogni dubbio per l’alto valore morale, per l’impegno dello stile e della lingua, che sono specifici di Levi. L’autore viene dagli studi scientifici, è laureato in chimica e questo gli servì anche a sopravvivere nel lager (si veda il capitolo “Esame di chimica”), ma ha una solida formazione negli studi classici, che si afferma nel capitolo immediatamente successivo, “Il canto di Ulisse”, dove, mentre trasportano la marmitta della squallida zuppa (che è un privilegio nella gerarchia del campo), Levi cerca di insegnare l’italiano a Pikolo, un giovane internato francese, ricordando a memoria Dante con tutte le lacune dovute alla rammemorazione di studi così lontani (è il tema della memoria). La scelta di questo canto riporta l’attenzione del lettore sulla dignità umana (“fatti non foste a viver come bruti…”), che il lager vuol negare. Si incrociano così i temi fondamentali del libro: il destino umano, la memoria, la dignità. Sono tutti temi che vanno oltre il semplice diario.
Nel capitolo immediatamente precedente, “I sommersi e i salvati”, che era il titolo di Levi per il libro (“Se questo è un uomo” è il titolo proposta da Antonicelli che riprende il testo poetico che sta in esergo) e che Levi darà al suo ultimo testo, il suo testamento spirituale, l’autore contrappone i “mussulmani”, il nome dato nel gergo del campo ai prigionieri sfiniti candidati alla camera a gas e al crematorio, ai “prominenti”, ai “mostri” che si salveranno grazie alla loro conquista di un posto nella gerarchia del campo. Anche Levi si è salvato perché chimico e questo determina la lacerante contraddizione che farà di lui un testimone: testimoniare è una missione e un riscatto contemporaneamente.
Scrive Levi dei mussulmani, dei “non- uomini”: “Essi popolano la mia memoria della loro presenza senza volto, se potessi racchiudere in una immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine, che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero”. Questo è l’obbiettivo del lager nazista: un processo di disumanizzazione, di brutalizzazione, di riduzione al bruto (più che alla bestia come viene abitualmente detto), al corpo vile, alla cosa.
Prima dell’annichilimento, della riduzione a cenere del cadavere, utilizzato come cosa, saponificato ecc., l’obbiettivo è la disumanizzazione. Levi ci mostra passo passo nella sua storia individuale e in quella dei suoi compagni questo processo di disumanizzazione, che in qualche modo coinvolge anche i tedeschi (Levi non parla mai dei nazisti, in un giudizio di condanna dell’intero popolo, che si è lasciato disumanizzare), che sono dipinti come remoti, “barbari”, appendici di una macchina abominevole della violenza. In questo sta “l’orribile laboratorio sociale” del lager, una sorta di esperimento per “stabilire che cosa sia essenziale e che cosa sia acquisito nel comportamento dell’animale-uomo di fronte alla lotta per la vita”.
A questo Levi e i suoi amici si oppongono. Nel dialogo con l’ex sergente dell’esercito austro-ungarico, Steinlauf, croce di ferro della guerra 1914-18, sostiene che “dobbiamo lavarci la faccia senza sapone nell’acqua sporca e asciugarci nella giacca”, “perché il Lager è una gran macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare, anche in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si deve sopravvivere, per raccontare e portare testimonianza”. Nessun negazionismo potrà mai cancellare questa realtà umana e quando questo negli anni ‘80 comincerà a spuntare sarà l’inizio della depressione di Levi, che lo porterà al suicidio, non prima di aver scritto “I sommersi e i salvati” con l’ammonimento che “ciò che è stato può ritornare”.
E’ un’allegoria brutale su dove ci può condurre questa variante industrialista e autoritaria della modernità, incarnata dal nazismo e dal fascismo. Vi è in tutta la narrazione il riemergere di un inconscio sociale ostile, che sta latente nelle profondità più oscure degli umani e che il processo di disumanizzazione di Hitler e Mussolini ha portato a galla nei venti anni più terribili del Novecento.
Un’ultima annotazione sulla lingua: il libro è caratterizzato dal plurilinguismo, che rilette la torre di Babele del lager, le tante lingue parlate dai deportati, conoscere le lingue è una possibilità concreta di sopravvivere, è un modo per trovare una via di comprensione in un mondo concentrazionario strutturato per essere privo di senso (cfr. episodio della Torre del Carburo).
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