CASTIGLIONE DELLA PESCAIA – La portaccia. Già il nome era evocativo! Il rione comprendeva, e comprende, l’ampia zona che andava dai lavatoi piccoli vicino al vecchio frantoio fino alle paduline accarezzando la fine del porto canale e la Bruna.
Alcuni consideravano Portaccia anche L’orto del Lilli, almeno per la parte che confina con la proprietà Raffi. In passato era contemplata come una zona “residuale” spinta fuori dal nucleo del paese, dalla piazza da un lato e dal ghetto dall’altro.
Oggi costituisce il nocciolo di aggregazione dei castiglionesi con gli insediamenti che arrivano fino all’altezza del Comune nuovo, alla ex fabbrica Paoletti verso Ponte della Valle.
Nella parte prospiciente la zona del mercato nuovo le case erano tutte molto basse e solo in seguito furono rialzate o ne furono costruite di nuove. La zona appariva come un “ponte” tra il paese vero e proprio e la campagna circostante che si allungava oltre il tabernacolo con la Madonnina nella strada che ora conduce all’Eurospin.
Così è rimasta per lungo tempo, sonnacchiosa, quasi dimessa, per poi improvvisamente cambiare aspetto e valenza con lo “spopolamento” del ghetto e il fenomeno dell’inurbamento conseguente all’abbandono delle campagne circostanti che poi si sarebbero di nuovo ripopolate fino al palazzo Prile.
Di questa “indefinitezza” erano parte gli abitanti adulti della zona in quanto, come detto, per lo più provenienti da altre contrade.
Tuttavia il senso di appartenenza era invece molto radicato nei giovani che si battevano con i confinanti ghettaioli con sassaiole memorabili e che durante il palio marinaro manifestavano tutto l’orgoglio di “quelli della Portaccia”. E da lì si passava per andare a San Guglielmo.
La camminata verso l’eremo di era un appuntamento assolutamente irrinunciabile come pure le raccomandazioni di mamma rivolte a me e a mio fratello
“Mi raccomando state attenti. Lungo il cammino usate il bastone per allontanare le vipere”. In aggiunta una raccomandazione speciale a mio fratello “Dai un occhiata al tu fratello eh!” Dopo questa litania avevamo la dispensa per partire
Ognuno raggiungeva la meta come poteva. C’erano i camminatori, i ciclisti e quelli con il motorino. Oltre a questi una macchina caricata del necessario per il prete, cose per il culto e, sopratutto, vettovaglie varie con bottiglioni di vino al seguito. Il tragitto era abbastanza breve ma io lo vivevo come fosse un episodio di un libro di Salgari… La macchia era la giungla e i frustoni enormi boa. Anche il legno che usavo per battere intorno lo vedevo come un macete utile per farmi largo. Ci mancava la tigre ma era comunque ben sostituita da qualche cane al seguito.
Arrivati alla meta aiutavamo Don Aldo ad apparecchiare l’altare e “mangiavamo il tempo” sperando che la funzione finisse alla svelta. Poi, una volta consumato il sacro, ci concentravamo nel più appagante profano: le libagioni. Si apparecchiava dappertutto, sui sassi grandi e piatti, sui ruderi e, perché no, sul plaid appoggiato nel sottobosco
Ed allora dalle borse portate a tracolla uscivano pane, frittate, formaggi, salumi, carne fritta. Insomma ogni ben di Dio. Ed il profano soverchiava il sacro grazie anche alla benevolenza del parroco arrivato al terzo o quarto bicchiere di quel rosso portato fin lassù con dedizione. Alle due tollerava anche qualche “osteria numero….” che risuonava in lontananza. Poi verso le tre si raccoglievano le cose e si tornava verso il paese, con il passo lento di chi ha mangiato più del dovuto.
Una forte aggregazione anche nei giorni del palio. “È un caldo boia. Se cammini e non fai svelto affondi nell’asfalto. Sento le folate di aria calda che mi soffocano. Sono costretto a rincorrere i gabbiani e gli elicotteri per rubargli l’ombra”. Penso ai poveri cani e gatti che sono sviluppati in orizzontale e assorbono tutto quel caldo che viene da sotto. “Se acchiappo qualcuno che nell’inverno dice che vuole il caldo lo spezzo in cinque parti.”
E quello che penso quando arrivo “sfiancato” a metà agosto anche se quando per la prima volta una sera comincia a volerci il maglioncino di cotone mi ricredo subito e dico esattamente il contrario. Ma allora non siamo mai contenti!
Con questo caldo infernale si affrontava il palo della cuccagna posto in orizzontale sulla bruna nello spazio subito sotto le cateratte il giorno del Palio Marinaro, dopo ferragosto.
La gara remiera si svolgeva lungo il fiume Bruna nel tratto compreso tra la prima ansa e le cateratte proprio dove ora centinaia di barche sono ormeggiate nei due lati.
Nelle prime edizioni erano presenti i Rioni di Piazza, Portaccia, Castello e Marina e non c’era ancora il Ponte Giorgini e in realtà anche il Castello lo chiamavamo in altro modo: il Ghetto.
La gara dell’albero (palo) della cuccagna era organizzata sia per ingannare il tempo prima del palio sia per refrigerare i cervelli e le altre parti intime delle “teste calde” dei sostenitori dei vari rioni che avrebbero voluto cominciare subito a scazzottarsi.
Il palo che si allungava per diversi metri veniva insaponato a dovere in modo che fosse quasi impossibile raggiungere la bandiera posta alla fine e la cui cattura rappresentava il raggiungimento dell’obiettivo.
Si vedevano i giovanotti in costume tentare di raggiungere la fine del palo con le conseguenti cadute in acqua e talvolta sullo stesso palo con botte sui “gioielli di famiglia” a cui faceva da contorno il coro di “vai, vai” che era sempre più forte “via via” che il competitore guadagnava centimetri.
Poi l’arrivo delle quattro barche provenienti dalla fiumara faceva inizialmente ammutolire la folla riunita che subito dopo però cominciava ad incitare i vari beniamini con urla di ogni genere con l’aggiunta di sproloqui (significato maremmano = parolacce/strafalcioni) e altri ammennicoli e litanie di contorno.
Una volta che le barche avevano raggiunto la zona della partenza cominciava la corsa, seguita lungo gli argini da persone che correvano a piedi o in bicicletta e, da lontano, dalle persone appostate sulla zona di arrivo o arrampicate sopra le saracinesche del ponte. Quelle più veloci in bicicletta aggiornavano sulle varie posizione a metà gara.
All’arrivo l’equipaggio vincitore si gettava in acqua seguito da decine e decine di sostenitori, molti dei quali si erano cimentati fino a poco prima con l’albero della cuccagna. Dopo cominciava la festa con cori e cortei, con in testa il Capo del rione (caporione) vincitore, e la madrina di turno che si concludeva vicino alla statua in memoria di Orsino Orsini dove il Palio veniva innalzato dai membri dell’equipaggio con le urla dei sostenitori. Era in quel momento che cominciavano le furibonde scazzottate dove si fronteggiavano sostenitori dei rioni e anche gli stessi componenti degli equipaggi.
Poi i fuochi e tutto sbolliva: finiva l’estate.
Per copiare un detto Senese, non me ne vogliano gli abitanti dell’amata città, “Lo scoppio dell’ultimo fuoco sapeva già di buristo”…. poi il caldo scemava e si cominciava a pensare alle battute di caccia al cinghiale.
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