CASTIGLIONE DELLA PESCAIA – C’era solo il primo canale della Rai e le trasmissioni avevano orari precisi e durate limitate. Tra una trasmissione e l’altra l’intervallo. Dapprima foto di pecore, pecore in tutte le salse, ovviamente non cucinate. Poi cominciavano i paesi, i borghi di ogni parte d’Italia. Se poi durante uno di quegli interminabili intervalli compariva la foto di un paese conosciuto tutti insieme gridavamo Tirli, Buriano, Vetulonia anche se i posti erano altri.
Era questa la televisione della mia infanzia, quella che cominciava alle 17,30 con la Tv dei ragazzi. Ricordo Giramondo, il gatto Felix, Ivanhoe, Lessie, Rin tin tin e poco altro. La memoria via via si attenua. Dopo la parentesi per i ragazzi le trasmissioni si interrompevano fino al telegiornale della sera a cui faceva seguito, ma non tutti giorni, un film o un documentario.
Il sabato invece l’intrattenimento con il Musichiere, Lascia o raddoppia ed altre trasmissioni che hanno costituito la musica di fondo di quegli anni. Carosello è stato lo spartiacque tra il periodo sperimentale della televisione e lo sdoganamento del piccolo schermo all’interno della vita familiare.
Noi ragazzi e i nostri genitori ci siamo abituati subito a quel tubo catodico che entrava nelle nostre case. I nonni ed ancor più i bisnonni hanno avuto qualche problema in più, come nonna Riga che trasferendosi l’estate da Pisa a Castiglione si rivolgeva insistentemente al lettore del telegiornale per qualificarsi come la stessa persona che lo ascoltava e lo guardava da Pisa. “Che fai non mi riconosci? Sono Enrichetta, sempre io. Sono in vacanza a Castiglione ma poi a settembre ci si rivede da Pisa”.
La televisione era stata una così grande novità che una sera ho ascoltato una accesa discussione tra due adulti. Uno diceva che le immagini arrivavano attraverso la presa della corrente e la voce invece proveniva attraverso l’antenna mentre l’altro affermava esattamente il contrario. Nessuno poteva immaginare che le trasmissioni si potessero diffondere attraverso l’etere.
“Dopo Carosello tutti a nanna” e in effetti era proprio così. Quel quarto d’ora di pubblicità fatta di simpatiche storielle serviva a congedarsi dagli adulti che si accontentavano anche di una tribuna politica fatta di monologhi pur di restare attaccati a quello schermo, adorato, venerato e che nel tempo sarebbe diventato una calamita che avrebbe spazzato via le serate di veglia accanto al fuoco.
Non più i racconti della vita quotidiana scambiati tra vicini di casa, purtroppo sostituiti da solitarie serate attaccati allo schermo fino al comparire della “neve”. Non il fenomeno atmosferico ma i pallini bianchi sullo schermo nero.
A quel punto si sarebbero accontentati anche dell’intervallo. Accendevi la televisione e quel volto rassicurante riempiva per intero lo schermo in bianco e nero. Poi la sua voce e il campo si allargava fino a mostrare la lavagna, quella di una volta, quella con il gesso che strideva e si sbriciolava.
Alberto Manzi cominciava a parlare in quella trasmissione televisiva che ha insegnato a scrivere, almeno il proprio nome, a migliaia di italiani quando il tasso d’analfabetismo era abbondantemente a due cifre.
Chi voleva imparare a sostituire la X dove si diceva firmare con il proprio nome e cognome rimaneva incollato allo schermo desideroso di imparare a decifrare quegli strani segni che i bambini in età scolare leggevano dando corpo e significato a ciò che era vergato sui fogli.
E così si cominciavano a vedere zii e nonni intenti a fare le aste ed i cerchietti che a poco a poco sarebbero diventate lettere dell’alfabeto dalla A alla Z mentre i nipoti davano consigli su come fare al meglio la lezione in attesa della successiva.
E dallo schermo sempre con la sua flemma autorevole il Maestro impartiva le sue lezioni a quella scolaresca costituita da persone con calli, screpolature e segni di varia natura sulle mani a volte tremanti.
Alla fine poi, dopo le lunghe lezioni pomeridiane e sempre con l’aiuto di chi già sapeva leggere e scrivere, gli strani scolari provavano a scrivere quel nome e quel cognome che sarebbero diventati il segno inequivocabile della volontà di imparare anche a quella età, dando quindi enfasi e valore a quel “Non è mai troppo tardi” che era il titolo del programma.
“Non mi disgarba”. Tipica espressione di mamma quando non voleva esprimere un giudizio netto su qualcosa o qualcuno. Quasi una doppia negazione ma non proprio, più una formula dubitativa ma con buone probabilità di essere positiva.
Alla 20,15 tutti seduti in tre file nel tinello davanti al televisore dal quale era stato tolto quel gonnellino che lo copriva durante il giorno. Un po’ per proteggerlo e un po’ per vezzo. Il televisore era un mobile, non un elettrodomestico, era un’icona. Tutti nel tinello.
In sala no perché la sala, con i divani coperti per non farli sciupare, veniva tenuta sempre chiusa e ci faceva un freddo cane. I divani invecchiavano non per l’utilizzo ma per l’inutilizzo. Se di pelle si crepavano se di stoffa sbiadivano. Era per mancanza di ossigeno. La sala veniva aperta raramente solo per rinfreschi in occasione di cresime, battesimi o altri sacramenti. Mai per altri motivi. Mai di buio.
Mai per il Festival. Stasera c’è Sanremo. Nella fila davanti io e le tre cugine, dietro gli altri. Mio fratello di lato al televisore.
Ciondoloni dalla TV, dalla parte dell’altoparlante, il microfono del registratore Geloso appiccicato con il nastro isolante senza però che questo avesse contatto diretto con l’involucro che contiene il tubo catodico. Non si può rendere appiccicosa la TV.
Il registratore con i suoi tasti bianchi, uno verde, uno rosso e uno nero appoggiato su una sedia vicino al manovratore e regista (mio fratello) sono le uniche note di colore della tecnologia del momento. Ancora i programmi sono in bianco e nero e lo saranno per molto tempo. Il Geloso era l’oggetto dei miei desideri, era quello che mio fratello utilizzava nei pomeriggi di studio per registrare le canzoni trasmesse da “Bandiera Gialla”
Vengono impartite le ultime inutili raccomandazioni su come comportarsi durante le esecuzioni. “Appena parte la canzone tutti zitti che sennò la registrazione viene male”. Il divieto di parola veniva interpretato da ognuno dei presenti come più gli piaceva.
Mamma un “non mi disgarba” se lo lasciava scappare poco dopo la partenza e l’esecuzione della prima canzone. Zia Renata era la più disciplinata ma qualcosa la borbottava anche lei mentre zia Beppina era la più prodiga di giudizi. E fioccavano i “sssssss” che poi inevitabilmente ritrovavamo nelle registrazioni quando le ascoltavamo. Appena finita la canzone via a premere il tasto dello stop.
Ed era allora che si scatenavano le giornaliste e critiche musicali: le zie. A questo punto le frasi erano: “Secondo me non ha cantato benissimo”, “La canzone non era adatta a lei/lui”, “La doveva cantare Morandi per Tenco non è adatta”, “Ha steccato ma non ho potuto dire niente perché GianPaolo registrava”
E poi: “ma non si potrebbe stare zitti 5 minuti?”. Le critiche erano rivolte a mamma e alle due zie (la terza zia Rosa non veniva mai) ma loro facevano spallucce e dicevano in coro: “Noi non si è aperto bocca eh”. “Siamo state zitte anzi mute”, “Dopo la canzone si potrà pure dire qualche cosa”. E così andava avanti per tutta la serata e per tutte le serate.
Quando poi GianPaolo ascoltava le registrazioni si sentivano in sottofondo oltre ai “sssssss” anche i borbottii di noi tutti compresi gli “ora basta, non si può registrare così. Si sentono solo le vostre chiacchiere “. Era Sanremo quello di “C’è chi spera” e non mi disgarbava punto, anzi…
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