CASTIGLIONE DELLA PESCAIA – La Piazza, il rione “cuore” del paese, è incastonata tra il Ghetto, la Portaccia e la Marina, chiusa tra via IV Novembre, la cinta muraria e il palazzo vecchio del comune.
Un tempo le pietre a terra si allungavano dalla discesa della Chiesa di Santa Maria del Giglio prendendo a destra all’altezza del simil-mistadello con la madonnina, giù per via Celso Camaiori fino a raggiungere l’incrocio tra il Corso della Libertà e via Cristoforo Colombo, proprio davanti alla caserma dei carabinieri.
Anche le scuole elementari erano nella piazza dove troneggiava una fontana attorniata da tamerici e acacie di fronte allo spazio dove il sabato i banchetti e gli ombrelloni multicolori del mercato facevano bella mostra dei prodotti artigianali e del vestiario appoggiati nei piani messi sulla terra battuta sulle “caprette”, vicino ad uno dei lavatoi del paese, il più grande.
E l’edificio delle scuole elementari, con l’odore del salmastro misto all’umidità che permeava i muri, con i banchi in legno ormai segnati da generazioni di alunni che ne avevano modificato l’aspetto iniziale con incisioni, oltre alle molte gomme da masticare attaccate sotto, imponente davanti alla “fritta” ormai abbandonata e cadente; le bidelle, le maestre e i maestri ci accoglievano come fossero una seconda famiglia, ed erano presenti nelle stanze dove ora c’è la biblioteca comunale, pronti ad educare noi bambini in grembiule nero con fiocco blu sempre sciolto insieme alla bambine con il grembiule bianco e il fiocco rosa sempre ben aggiustato.
Il lavatoio che ora non c’è più era il luogo dove non solo si lavavano i panni, ma anche quello dei giochi dei bambini e dove si raccontavano le improbabili o verosimili storie dell’uomo lupo, il lupo mannaro, che di volta in volta veniva avvistato nelle sere di luna piena invernali mentre si tuffava nelle acque per placare il suo male.
Ma la piazza era sopratutto il corso, il tratto che andava dalla ferramenta di Bindo al Monumento ai caduti, con le botteghe e le persone che le animavano rendendole molto diverse dai negozi. Le botteghe erano le persone stesse, donne e uomini che odoravano delle merci che vendevano fondendo il loro aspetto con le attività commerciali.
Il monumento era il punto di unione tra la fiumara, il porto e la piazza vera e propria ed era da quel luogo che, incamminandosi verso nord, si arrivava alle fontanelle.
Lungo la fiumara la marineria castiglionese, con barche e pescherecci pronti a salpare nelle prime ore del mattino per poi rientrare a sera, accompagnati fino all’altezza dei fari, da gruppi di gabbiani.
Le case nel corso, guardando in direzione del comune a sinistra, sembravano un’unica costruzione, perché appoggiate le une alle altre, mentre a destra avevano qualche discontinuità per effetto dell’interruzione della via che portava al cinema all’aperto, costeggiando la cinta muraria che arrivava fino al prato e di quella che portava in via Remota, passando davanti all’albergo Iris.
Quando le pietre furono sostituite dal più moderno asfalto, quella parte della piazza perse un po’ del suo connotato di “salotto buono”, e fu come quando nelle case furono sostituiti i tavoli in marmo delle cucine con quelli in formica, anonimi e privi di storia.
Ma d’altra parte era il nuovo che avanzava, e che era legato alla voglia di emergere dal torpore che aveva caratterizzato il luogo prima dell’avvento dei villeggianti. Nel corso si transitava con auto, camion e pullman, e la vitalità della via principale ne decretava il successo. Tutto questo oggi è cambiato ma rimane la caratteristica di cuore pulsante del paese, anche se nell’inverno rimane deserto per gran parte del periodo.
E mi ricordo… “Paperino” in testa e la banda suona nella via principale. Sui lati tanti banchetti, tante “Maria di gnagna”. I profumi… del croccante, dei brigidini appena tirati fuori e insacchettati. I torroni, di tutti i tipi. E poi i “duri”, i semi, le noccioline, i lupini, e quello strano ometto venduto con delle “finte” mini sigarette. Se le infili nella bocca dell’ometto e le accendi hanno come effetto proprio il fumo. La liquirizia arrotolata, a “stringhe”, a pezzetti.
La banda suona una marcetta e avanza. Paperino sempre in testa con il suo impermeabile sgualcito che sembra “stato in c… a un cane”, sembra dirigere. Paperino è un “melomane”. Appassionatissimo. I ragazzetti dietro la banda si muovono a tempo di marcia. Ai lati, dalla parte opposta ai banchetti, gli adulti osservano divertiti.
Alcune “bimbe” indossano una collana di nocciole, altre staccano pezzetti di zucchero filato dal bastoncino dove è raccolto. Sembrano fumetti e intanto la banda continua a suonare ed ha cambiato motivetto. Paperino sempre davanti, impettito col suo impermeabile che forse un tempo era bianco. Un drappello di vigili con l’uniforme stirata precede il corteo e fa da scorta al prescelto che porta il gonfalone.
La banda arriva al Monumento. Si ferma. Dopo un attimo di silenzio attacca l’Inno di Mameli. Paperino lo canta a bassa voce. I vigili con la mano destra tesa sul lato della testa salutano. Finisce l’inno. Applauso. La Banda riparte e Paperino sempre davanti.
Passando sulla fiumare mi torna in mente “Anna del pesce” “Anna i dentici” (e non Anna Identici diceva Piombino al secolo Osvaldo rivolgendosi all’amata compagna di vita nella pescheria lungo la fiumara “i dentici mettili più indietro nel banco”).
La vita di Piombino è stata molto avventurosa. Si racconta che, da ragazzo, trovato a letto con una donna sposata dal marito rientrato in anticipo a casa, per non farsi riconoscere si sia buttato giù da una finestra e che per lo spavento gli siano venuti in gioventù tutti i capelli bianchi.
Quella dei capelli bianchi venuti in gioventù ai pescatori è comunque una leggenda metropolitana. Infatti ricordo che anche mio suocero Pietro raccontasse di aver ricevuto in dono i capelli bianchi da giovane dopo una disgrazia capitata in mare.
Anna era disponibile ad assecondare le nostre richieste di bimbi. “Anna me le dai due sarde per pescare? Però i soldi non ce l’ho”. “Si però se prendi una spigola me la porti e io te la pago scalando il costo delle sarde”. Rispondeva scherzando. Tanto sapeva che io avrei pescato solo bavose e ghiozzi.
Mi rammento anche di uno scherzetto che alcuni “vitelloni” avevano fatto proprio a Paperino. Appostati sulla Terrazza da Iride avevano messo in terra in bella vista sulla fiumara un portafoglio legato con un filo da pesca. Avevano poi nascosto un altoparlante nella stessa zona collegato ad un microfono.
Aspettavano che qualcuno passasse. Passò proprio lui, di ritorno da qualche incombenza in Comune per la pro-loco. Vide il portafoglio, si guardò intorno e fece per raccoglierlo, i ragazzi tirarono il filo e lo fecero sfilare via. Paperino si guardò intorno stupito. Fu allora che intervenne la voce diffusa dall’altoparlante: “queste cose non si fanno…” Paperino si allontanò velocemente, sali sulla vespa parcheggiata poco più avanti e si dileguò.
La banda suona ora un motivetto orecchiabile. I ragazzi che seguono accennano ad un balletto. Tutti sorridono. Per quel giorno la banda è la felicità.
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