CASTIGLIONE DELLA PESCAIA – “Luglio col bene che ti voglio vedrai…”. Da noi l’estate è come un fiore. Come nel fiore arrivano insetti di ogni genere per assaporarne il nettare – ed il fiore li accoglie tutti – così da noi tantissime persone che amano il mare, riempiono la spiaggia e ne gustano gli aromi.
Non me ne vogliano i turisti per il paragone, ma le api come loro sono un bene per l’economia e per la nostra crescita relazionale. Fanno parte della nostra storia e del nostro presente. Mi meravigliai molto però del fatto che un amico villeggiante, bergamasco, un giorno mi chiedesse, quasi con distacco, “ma voi di qua in ferie non andate?”. Risparmio la mia risposta ma la si può facilmente intuire.
C’era una canzone in quel periodo che costitutiva il tormentone di quell’estate era “Luglio” cantata da Riccardo del Turco. I Jukebox da Brotto, alla Terrazza o al Faro alla combinazione C3, B9, A2 o qualche altra possibile la proponevano e tutti noi la canticchiavamo. Erano i giorni degli amori estivi.
Aspettavamo con ansia la sera, anzi, già il momento in cui si passava dal giorno all’imbrunire, chi per appartarsi nella penombra per l’ennesimo bacio e chi per ballare nelle festicciole organizzate nelle case dei villeggianti o sulle cabine per cercare di strappare il primo bacio. Il giradischi la faceva da padrone. “Dai mettiamo un lento”.
In quelle serate calde e appiccicose noi il caldo non lo sentivamo, proprio perché ci ribolliva tutto dentro. Eravamo un po’ come i pompieri che per spegnere un incendio qualche volta accendono il controfuoco.
Dentro di noi un’inquietudine persistente. Era la gioventù che esplodeva.
“Vuoi ballare?” Il no veniva visto come una sconfitta mentre il sì veniva interpretato come una promessa, quasi come un invito ad osare di più. Il cuore cominciava a battere forte, sempre più forte mentre timidamente ballando un lento prendevamo la mano nella nostra mano con tenerezza e pudore. Accostavamo le nostre guance e quel semplice innocente contatto ci faceva tremare le gambe. Gli odori della pelle si “mischiavano” ed Il cuore smetteva di battere forte come appagato dalla dolcezza e dai profumi. Quel semplice contatto ci esaltava. Quasi in estasi assaporavamo Il primo timido bacio che ci faceva sentire il sapore del sale sulle labbra, quasi come il ripetersi del ritornello della famosa canzone di Gino Paoli.
Quanti amori sbocciati con le canzoni del momento e quanti invece finiti con le stesse canzoni. E poi sulla spiaggia per farci quel bagno interdetto ma tanto desiderato magari, se possibile, condiviso. “Non posso bagnarmi i capelli, li ho lunghi e non asciugano”.
L’acqua di mare ci pareva “bollente” sotto la luna, e ci faceva sentire al di sopra di ogni possibile infelicità. Poi la pizza da Giacomino con i pantaloni bagnati dal costume che non era stato possibile asciugare. Il giorno successivo si ricominciava. Tutti i giorni.
Avremmo ricordato alla fine dell’estate quelle sensazioni? Avremmo ricordato il nome di chi ci aveva fatto battere il cuore? Avremmo mantenuto la promessa di scriverci? Forse sì forse no. Ma l’anno successivo sarebbe ricominciato tutto.
Credo che quelle “estati” fossero uguali anche in altri luoghi di villeggiatura. Erano quelle della spensieratezza, le nostre, le vostre, le loro. Chissà quanti, magari proprio in quelle serate, avranno trovato la felicità. A noi che restavamo rimaneva, oltre al ricordo, la gioia di vivere in un luogo quasi magico. E prima di allora chi l’aveva mai vista la pizza napoletana, quella tonda che si mangiava nel piatto con forchetta e coltello.
Io sinceramente la prima volta che l’ho vista è stato quando Giacomino ha aperto la pizzeria; sul mare proprio dove fino a poco prima c’era la costruzione che ospitava il Lorenzoni, il fotografo.
Ma “the show must go on” e quella piccola costruzione doveva fare quella fine. Non si poteva mica fermare il progresso eh! Noi la pizza la mangiavamo anche prima e sopratutto buonissima. Era la pizza di Celso, la pizza che ricorderò sempre. Si aspettava vicino alla fiumara che il teglione nero venisse infornato e poi Celso ci diceva “ci vogliono ancora dieci minuti e poi metto la mozzarella” e noi li ad aspettare con l’acquolina in bocca proprio di fronte al posto dove il Manzoni alava le barche. Poi finalmente usciva quella pizza profumatissima.
“Per me un pezzo ma mi puoi togliere l’ acciuga?”. “Per me uno ma con l’ acciuga”. Così Celso ci metteva nella carta quanto richiesto e noi mangiavamo di gusto quella prelibatezza. La pizza è cultura italiana, sapore ancestrale di farina e pomodoro, la pizza era Celso.
Potremmo dire che con Celso “non c’era trippa per gatti”, solo quella pizza odorosa e sfornata in quelle teglie nere di fuoco fatto con la legna e nessuna poteva competere con quella prelibatezza. Fatta la lunga fila entravi e ti trovavi davanti una piccola vetrinetta con esposte le famose schiaccine, i bomboloni col buco, quelli ripieni di crema o cioccolata, le girelle… ma la regina era dentro quelle teglie che con maestria Celso appoggiava sul piano di marmo aspettavamo ri-contando gli spiccioli per verificare che fossero sufficienti per l’agognato pezzo di “felicità”.
La moglie e la mamma di Accio tagliavano con le forbici precisi rettangoli magici. “Può togliermi l’acciuga?” E quelle medesime forbici servivano alla bisogna. Ci veniva servita la prelibatezza piegata nella carta oliata da una sola parte e cominciavamo a mangiarla, così calda, caldissima, ancor prima di essere usciti fuori. Già al primo boccone pensavamo al momento in cui ne avremmo comprata un altro pezzo, l’indomani. D’inverno o d’estate la variabile era solo la “fila”, la coda, perché il resto era immutabile.
Noi indigeni avevamo alcune chances in più rispetto ai villeggianti perché con il cambiamento di stagione potevamo mangiare anche la schiaccia “cogli scriccioli” (con i ciccioli), la schiaccia dolce con l’uva oltre all’immancabile castagnaccio.
Quando aprivano le scuole, le elementari erano a due passi dalla pizzeria, era la schiaccina la nostra merendina, secca, meno secca a seconda dei gusti ma era l’unica alternativa al panino con olio e sale, con l’acqua e lo zucchero, con il vino e lo zucchero, con la conserva e per qualcuno con la mortadella. La pizza però rimaneva la prima scelta con quel sapore che inglobava la nostra felicità.
Ma la pizza tonda napoletana era un’altra cosa. Intanto solo a leggere il cartellone veniva voglia di sperimentare: margherita, capricciosa, quattro stagioni, con la ricotta… Poi oltre a portarla a casa poteva essere mangiata comodamente seduti con vista mare anche scalzi e pronti per riprendere possesso del pezzo di spiaggia. Infatti andavamo la sera a volte dopo aver fatto un ultimo tuffo in mare.
I camerieri, rigorosamente napoletani, ci chiedevano “cosa vulite?” E noi ordinavamo la pizza che conoscevamo perché assomigliante d’aspetto a quella di Celso, la margherita. I camerieri di Giacomino erano giovanissimi e dopo poco tempo avevano preso confidenza con i paesani e ci raccontavano le loro storie a volte tristi e di povertà.
Talvolta vedendoli lavorare mi veniva un po’ di tristezza pensando a quelle storie che avevano raccontato. Ma da gran “paragnosta” facevo finta che non fossero vere…
Il mio ricordo, legato ad una parola “lo spiezzo”, ancora oggi mi fa pensare a quei ragazzi. La prima volta che la sentii mi rifugiai in tutta la mia possibile fantasia per cercare di capire cosa fosse senza però mai riuscirci. Solo dopo la spiegazione seppi che si trattava di pane e mortadella che mangiato a metà giornata spezzava in due la giornata e che “lo spiezzo” rappresentava, in realtà, pranzo e cena. Poi timidamente provammo le altre pizze e poco dopo diventammo esperti.
Io però non abbandonai mai completamente la pizza al taglio che ancora oggi, se ben fatta, la preferisco alla classica pizza napoletana.
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