Questa domenica propongo un testo poetico, ben più grande di quello che ho proposto dei miei nelle settimane scorse. Fungerà da modo per ricompensare la fedeltà dei dodici lettori che seguono questa pagina.
EUGENIO MONTALE
“DORA MARKUS”
DA “LE OCCASIONI”, MERIDIANO MONDADORI, (1939), 1984, pp. 130-132
I
Fu dove il ponte di legno
mette a porto Corsini sul mare
alto
e rari uomini,
quasi immoti, affondano
o salpano le reti. Con un segno
della mano additavi
all’altra sponda
invisibile la tua patria vera.
Poi seguimmo il canale
fi no alla darsena
della città, lucida di fuliggine,
nella bassura dove s’affondava
una primavera inerte,
senza memoria.
E qui dove un’antica vita
si screzia in una dolce
ansietà d’Oriente,
le tue parole iridavano
come le scaglie
della triglia moribonda.
La tua irrequietudine
mi fa pensare
agli uccelli di passo
che urtano ai fari
nelle sere tempestose:
è una tempesta anche
la tua dolcezza,
turbina e non appare,
e i suoi riposi sono anche più rari.
Non so come stremata tu resisti
in questo lago
d’indifferenza ch’è il
tuo cuore; forse
ti salva un amuleto che tu tieni
vicino alla matita delle labbra,
al piumino, alla lima:
un topo bianco,
d’avorio; e così esisti!
II
Ormai nella tua Carinzia
di mirti fi oriti e di stagni,
china sul bordo sorvegli
la carpa che timida abbocca
o segui sui tigli, tra gl’irti
pinnacoli le accensioni
del vespro e nell’acque un avvampo
di tende da scali e pensioni.
La sera che si protende
sull’umida conca non porta
col palpito dei motori
che gemiti d’oche e un interno
di nivee maioliche dice
allo specchio annerito che ti vide
diversa una storia di errori
imperturbati e la incide
dove la spugna non giunge.
La tua leggenda, Dora!
Ma è scritta già in quegli sguardi
di uomini che hanno fedine
altere e deboli in grandi
ritratti d’oro e ritorna
ad ogni accordo che esprime
l’armonica guasta nell’ora
che abbuia, sempre più tardi.
È scritta là. Il sempreverde
alloro per la cucina
resiste, la voce non muta,
Ravenna è lontana, distilla
veleno una fede feroce.
Che vuole da te? Non si cede
voce, leggenda o destino…
Ma è tardi, sempre più tardi.
La critica si è appellata a quel poco che si ricava dagli scritti del poeta in termini autobiografici, operazione che ha sempre un rischio riduttivo. Il testo si compone di due parti: la prima scritta tra il 1926 e il 1928 e pubblicata su “Il meridiano di Roma” (anno 1, n. 2 1937) con una avvertenza editoriale, in cui Montale scrive: “Questo è l’inizio di una poesia che non fu mai né finita né pubblicata e non lo sarà mai più” (p. 1078); la seconda fu aggiunta nel 1939 per la pubblicazione del secondo libro, “Le occasioni”. Lo stesso Autore ha commentato: ”La prima parte è rimasta allo stato di frammento. Fu pubblicata a mia insaputa nel ’37. A distanza di 13 anni (e si sente) le ho dato una conclusione, se non un centro” (p. 1086). Come si vede la poesia va oltre le intenzioni dei poeti, come pretende il suo messaggio universale. A qualcuno è sembrato che le due parti sono ispirate a due donne diverse: la prima a Dora Markus, moldava di religione ebraica, la seconda all’amica di lei, Gerti, a cui è dedicato un altro testo della stessa raccolta (“Carnevale di Gerti”, pp. 124-126). In una lettera a Silvio Guarnieri nel 1964 Montale scrive: “lo Dora non l’ho mai conosciuta; feci quel primo pezzo di poesia per invito di Bobi Bazlen che mi mandò le gambe di lei in fotografia”. E’ evidente che la donna qui chiamata Dora Markus è un figura inventata, una “leggenda” come dice il testo all’inizio della terza strofa della seconda parte. Questa interpretazione risponde non solo alla fedeltà filologica al testo, ma al senso complessivo de “Le occasioni”, in cui Montale abbandona le suggestioni del simbolismo e dell’ermetismo del precedente “Ossi di seppia” (1925) per approdare ad una forma di allegorismo moderno in cui il dato storico (in questo caso Dora, che è esistita come attesta persino la foto delle sue belle gambe, realtà materiale tale da meritare un poesia, ma anche Gerti, che la foto sembra abbia scattata) è proiettato in una dimensione universale. È la teoria del “correlativo oggettivo” elaborata dal poeta inglese Eliot, alla cui lezione Montale si rifà nell’”entrare a far parte della grande tradizione europea di poesia alta …, volta a trasferire un destino individuale su uno scenario universale” (R. Luperini et al., “La scrittura e l’interpretazione”, vol. 6, 1998, p. 327).
La prima parte è ambientata in una Ravenna, screziata di Oriente (seconda strofa) con un’atmosfera di morte (“una primavera inerte senza memoria”; “le scaglie/ della triglia moribonda”; “gli uccelli di passo che urtano ai fari/ nelle sere tempestose”), che non riesce a contenere “l’irrequietudine” di Dora, lontana dalla propria “patria vera” di là dall’Adriatico. Ella resiste “in questo lago/d’indifferenza che è il tuo cuore; forse/ti salva un amuleto che tu tieni/vicino alla matita delle labbra,/ al piumino, alla lima: un topo bianco,/d’avorio; e così esisti”. Lo psicoanalista Giovanni Jervis ha individuato in questo amuleto, citato da Montale, un “oggetto transazionale” come un pelusce o un indumento impregnato dell’odore della madre che il bambino porta a letto per dormire da solo, per affrontare il buio della notte.
Nella seconda parte Ravenna è perduta, Dora è “ormai nella tua Carinzia”, ma anche qui è presente la morte (“la carpa che timida abbocca”). La leggenda di Dora “è scritta” negli sguardi dei “grandi ritratti d’oro” dei suoi avi, ma anch’essa “esprime/l’armonica guasta nell’ora/ che abbuia, sempre più tardi”. Il concetto, che i giochi sono fatti in maniera irrimediabile, è contenuta nell’ultima strofa: “Ravenna è lontana, distilla/veleno una fede feroce”. Il riferimento è alla montante marea nazista (“una fede feroce”), che segna il destino di Dora come ebrea. Così sono chiari i versi conclusivi. “Che vuole da te? Non si cede/voce, leggenda o destino …/Ma è tardi, sempre più tardi”. Anche se è tardi per rovesciare le sorti della partita europea, Montale è uscito dalla torre d’avorio dell’ermetismo per prendere partito ed indicare due cose insieme: una storica, l’approssimarsi della catastrofe mondiale (ricordiamo che “Le occasioni” escono nel 1939 e l’anno dopo si scatena la guerra nazista e fascista), e l’altra universale, non c’è modo di sottrarsi al proprio destino. Ecco questa è l’allegoria moderna, come sosteneva quella dantesca, che ancora qui risuona: non può esservi destino individuale fuori di quello collettivo.
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