JOSEPH CONRAD
“TIFONE”
BOMPIANI, MILANO, (1902) 1987, pp. 93
“Tifone” è un racconto lungo, che Conrad pubblicò a puntate in uno dei periodi più proficui della sua carriera letteraria in lingua inglese. Egli era un marinaio polacco con una “vocazione” disomogenea rispetto alla sua famiglia, che apparteneva alla nobiltà terriera. Perse presto entrambi i genitori a seguito della deportazione in Siberia del padre a causa della sua partecipazione al movimento degli irredentisti polacchi. Nonostante il suo tutore tentasse in tutti i modi per distoglierlo dalla sua vocazione per il mare, egli navigò con la marina mercantile di vari paesi e soprattutto quella inglese per oltre 20 anni, prima di scegliere la carriera di scrittore. Conrad è noto come scrittore di racconti di avventure in ambito marinaro, ma è una classificazione secondo molti critici riduttiva.
“Tifone” ne è un esempio tipico. E’ un racconto tipicamente romanzesco, in cui il personaggio è gettato nelle peripezie del mondo come in questo caso una tempesta tropicale, che assume il senso metaforico. Quindi il racconto va oltre la tipologia del racconto marinaresco. Chi racconta i fatti, il cosiddetto “narratore interno”, è il giovane secondo ufficiale, Jukes, di un piroscafo battente bandiera siamese “Nan-Shan”, che trasporta un “carico” di 200 lavoratori cinesi (coolies), che rientra in patria con tutti i propri risparmi in dollari d’argento. Il protagonista è il capitano Mac Whirr, descritto come un uomo medio, di estrazione piccolo borghese, che per il mare rifiuta di seguire la strada da bottegaio di suo padre.
Questo piccolo uomo, fedele ai doveri di capitano mercantile, per eseguire il suo compito e portare il piroscafo affidatogli dall’armatore e il suo carico umano a destinazione in tempi utili, affronta il mare in base a quanto ha imparato sui libri di navigazione. Ovviamente la natura nella sua potenza immane si incarica di smentirlo. Egli sottovalutando la portata del pericolo incombente, decide di attraversare il tifone, che squassa la sua vita, quella dell’equipaggio e del carico umano di coolies. Ciò dà modo all’autore di descrivere il tifone, con grande realismo e figurativismo espressionista di enorme potenza, in cui Conrad era maestro perché attingeva alla propria esperienza. Descrive il mare, che tratta il piroscafo come un fuscello, compreso l’attraversamento dell’occhio del ciclone, cioè il centro dove i venti sono assenti e il mare è piatto.
Il capitano Mac Whirr riesce nel suo intento anche costringendo – nel pieno della tempesta – il suo giovane secondo a sedare la rissa dei coolies cinesi, che si scatena nella stiva quando il mare grosso rovescia le loro cassette e disperde in giro tutti i loro risparmi. Giunto in porto il capitano trova anche una soluzione equa e ragionevole per ri-distribuire i dollari d’argento, dispersi e accumulati tutti insieme, ai loro proprietari.
La conclusione del racconto è: “In quanto al comandante, l’altro giorno mi ha fatto osservare: ‘Ci sono cose delle quali i libri non parlano affatto’. A me sembra che per essere uno sciocco se la sia cavata molto, molto bene”. Chi parla è il secondo Jukes e ciò dimostra quanto tutto il racconto sia una lunga metafora continuata, dunque un’allegoria, in cui un uomo usuale, semplice, piccolo borghese, viene strappato dalle sue sicurezze mal riposte e trascinato dalla vita e della natura ad imparare cose inusitate. Il prorompere del naturale, della forza primeva della natura, rappresentata dal tifone, sicuramente ha a che fare con l’emergere di un inconscio primitivo. Penso che in questo stia l’attrazione irresistibile che il mare esercitava su Conrad.