GROSSETO – Quello appena concluso è stato, direbbero gli economisti di vaglia, davvero un anno di merda. Non è elegante, ma è un dato di fatto. Tuttavia, il punto non è questo. Inutile commentare l’ovvio.
Il punto, invece, è cosa serve alla provincia di Grosseto, a partire dal comune capoluogo, per disincagliarsi dalle secche in cui è arenata oramai da troppo tempo. Perché il buon senso e la teoria economica dicono la stessa cosa: nei momenti di crisi si gettano i semi della ripresa futura. Quindi bisogna affrettarsi, dal momento che di gente brava a piangere sul latte versato sono imbottiti i gangli istituzionali e della rappresentanza economica e sociale. Compresi caserecci maître à penser.
La prima cosa da fare con grande prescia, non sembri un paradosso, è cambiare radicalmente la narrazione prevalente su questa terra. Che è, sì certo, benedetta da dio per l’integrità ambientale che tutto sommato la contraddistingue. Ma che allo stesso tempo è maledetta dagli uomini che si baloccano con la pia illusione sia «la terra più bella del mondo», e nel frattempo perdono quasi ogni treno che possa portare sviluppo, e quindi anche benessere e qualità della vita. Considerazioni che ovviamente, ma è bene ribadirlo, non significano affatto denigrare il luogo in cui si vive, o volerlo devastare.
Rimuovere gli stereotipi, dunque, è una priorità. Il primo dei quali riguarda il peso dei diversi settori economici. Stando al Centro studi della Camera di commercio (Report della Giornata dell’economia) che ha utilizzato i dati di Prometeia, la ricchezza (valore aggiunto) prodotta in provincia di Grosseto nel 2019 è stata di poco più di 4.5 miliardi di euro. Così suddivisa: 79.1% servizi, 8.8% industria, 6.4% agricoltura e 5.7% costruzioni.
Quel che risalta a occhio nudo è che nella nostra realtà c’è una sproporzione enorme tra i servizi e gli altri settori produttivi, la più alta della Toscana. Soprattutto il settore manifatturiero (8.8%) è lontano anni luce dalla media regionale del 20.4%. Mentre l’incidenza dell’agricoltura è tre volte la media toscana, ma molto meno di quel che è nell’immaginario collettivo. E quella delle costruzioni è un po’ più di un punto percentuale del resto della regione.
Tenendo anche conto del fatto che la nostra provincia esporta davvero troppo poco – più o meno 390 milioni di euro nel 2019 – ecco il motivo per cui l’economia maremmana arranca vistosamente. E il motivo per cui il valore aggiunto pro-capite (a prezzi base 2010) nella nostra zona è circa 5.000 euro in meno di quello medio regionale. Calcolando l’impatto dell’inflazione, nel decennio 2008-2018, infatti, Grosseto ha perso il 9.4% del valore aggiunto, con una riduzione di 2.335 euro a residente. Senza tenere conto del fatto che i dati a consuntivo del 2020 peggioreranno ulteriormente le cose.
Allora, per cominciare, bisogna dire che in economia piccolo non è bello. O meglio, che piccolo non basta. Perché, purtroppo, la nostra debolezza è figlia in buona parte della frammentazione del tessuto produttivo in micro-aziende. Poco innovative, poco patrimonializzate e per nulla vocate all’export. Quindi scarsamente competitive. Per cui le politiche di sostegno all’impresa devono privilegiare le aziende di medie dimensioni, e le poche grandi che ci sono. Comunque quelle con prospettive di crescita. Altrimenti in termini congiunturali ogni raffreddore diventa una polmonite bilaterale. Le micro attività hanno infatti la possibilità di sostenersi solo nella misura in cui ci sono imprese di medie e grandi dimensioni che generano occupazione qualificata, con dipendenti che hanno una capacità di spesa in grado di sostenere i consumi.
Poi bisogna dire a voce alta che in questo territorio c’è troppo poca industria – se qualcuno s’offende chiamatelo pure manifatturiero – e troppo poco terziario avanzato, lo sviluppo dei quali bisogna provare in ogni modo a sostenerne. Perché creano buona occupazione, valore aggiunto e distribuiscono ricchezza.
A tal proposito. Bisogna tenersi strette le pochissime multinazionali italiane e straniere che operano su questo territorio. L’Istat spiega perché nel report sui “risultati economici delle imprese e delle multinazionali a livello territoriale nel 2018”: «le unità locali di gruppi multinazionali italiani, pari all’1.2% del totale nazionale (delle imprese ndr), realizzano quasi il 21% al valore aggiunto dell’intera economia». La spiegazione è semplice: «la produttività delle unità locali delle multinazionali italiane ed estere è molto alta, fino a 3,5 volte quella delle imprese domestiche». Il rapporto Istat fa l’esempio del Lazio, dove il valore aggiunto per addetto – il più alto d’Italia – va dai 1118mila euro medi del dipendente di una multinazionale estera ai 126mila di quello di una multinazionale italiana, a fronte dei 35.000 per addetto delle unità locali di imprese nazionali». Chiaro che in generale più alto è il valore aggiunto per addetto, più alte (e ancorate all’inflazione) sono le retribuzioni. Non è difficile.
Volendo fare nomi e cognomi delle realtà nella provincia di Grosseto: Venator e Sumiryko, per quelle estere, Elettromar, Terranova, Eurosider, Nuova Solmine, Crosa Group, Roberto Ricci Design, Certified Origin Italia, per le multinazionali “tascabili” italiane. Solo per citare le più note.
Altro tema cruciale. Il ruolo dell’agricoltura. Al di là della sua rappresentazione romantica e bucolica, l’agricoltura maremmana riesce ad emergere, e dare lavoro, quando va oltre il luogo comune del «piccolo è bello». E lo fa o attraverso strutture consortili, o grazie a colossi dell’agroalimentare, o quando piccole aziende strutturate riescono ad accedere alla media e grande distribuzione organizzata. Anche in questo caso giova qualche esempio: Latte Maremma, Olma, Corsini, Conserve Italia, Coopam, le cantine cooperative di Morellino, Bianco di Pitigliano e Vini di Maremma, le grosse e medie aziende della Doc Maremma, Conserve Italia, Grandi Salumifici Italiani, Amadori, Bonifiche Ferraresi, i caseifici sociali, a partire da quello di Manciano. E via discorrendo. Ma anche qui, è bene esser chiari, in buona parte si tratta di realtà dell’agroindustria vera e propria o di manifatturiero alimentare. Mica di altro.
Infine, ma non per importanza, il turismo. All’interno del settore dei servizi, in Italia il turismo al massimo arriva ad incidere per l’11-13% del valore aggiunto. La nostra è una delle zone a più alta incidenza sul Pil nell’intero Paese. Secondo una ricerca del 2017 dell’osservatorio regionale sul turismo dell’Emilia Romagna, col metodo del “conto satellite” dell’Istat, in provincia di Grosseto circa il 30% del Pil sarebbe (ottimisticamente) riconducibile in modo diretto o indiretto al comparto turistico. Anche se fosse così, ci sono tre problemi serissimi e sottovalutati: secondo l’Irpet dal 2007 al 2017 le presenze turistiche sono cresciute dello 0,91% (quindi non si sono mosse) rispetto al +12,7% di Livorno. Dimostrando nei fatti una crisi di capacità d’attrazione. In provincia di Grosseto il turismo non è un’industria ben organizzata, ma una sommatoria di offerte, alcune delle quali eccellenti. Il valore aggiunto dei servizi turistici è fra i più bassi nel settore dei servizi, e molto più basso di quello nell’industria e nelle costruzioni. Da queste consapevolezze bisogna ripartire per non farsi illusioni, ma soprattutto per non sbagliare mira.
Rispetto a questo quadro, c’è poi una variabile che si continua a sottovalutare con criminogena incoscienza: quella demografica. L’Istat ha da poco comunicato che l’indice di vecchiaia della popolazione italiana – il rapporto tra chi ha più di 65 anni e chi ne ha meno di 15 – è passato dal 33,5% del 1951 al 180% del 2019. Il numero di anziani per bambino è passato, nello stesso periodo, da meno di uno a cinque.
In provincia di Grosseto l’indice di vecchiaia non è 180% ma 243%: cioè a dire che ci sono 2.43 ultra 65enni per ogni under 15. In un contesto nazionale nel quale il 43% degli under 35 dichiara che non pensa di avere figli, o al massimo di averne uno solo, in provincia di Grosseto abbiamo un tasso di fertilità (numero medio di figli per donna in età fertile) di 1.2 a fronte del tasso di sostituzione ideale (nati che compensano i morti) che sarebbe almeno del 2.1. Mettendo in relazione gli ultrasessantacinquenni coi nuovi nati, è evidente che questa provincia – in assenza di politiche mirate – andrà a sbattere velocemente contro il muro dell’irrilevanza socio economica. Con buona pace degli immaginari promotori delle barriere di filo spinato, che vorrebbero impedire un’immigrazione della quale abbiamo già oggi un disperato bisogno. Perditempo della politica declamata, sprovvisti di visione a medio termine «incapaci di fare l’O col culo». A proposito di detti e tradizioni popolari.