PAOLO VOLPONI
“POESIE GIOVANILI”
EINAUDI EDITORE, TORINO, 2020, pp. 76
Il volumetto è appena uscito nella famosa “Collezione di poesia” (n. 475) dalla copertina bianca. Questo primo Volponi esordisce come poeta (“Il ramarro”, 1948), ma poi si afferma come scrittore (vincitore di due Premi Strega con “La macchina mondiale” nel 1965 e “La strada per Roma” nel 1991). I romanzi più importanti non hanno vinto lo Strega (“Memoriale”, 1962; “Corporale”, 1974 “Il sipario ducale”, 1979; “Le mosche del capitale”, 1989).
“La strada per Roma” è importante perché esce per ultimo, poco prima della scomparsa dell’autore (1994), ma venne scritto trent’anni prima e descrive la storia autobiografica di uno studente che dalla provincia vuole andare a Roma. E’ esattamente lo stesso studente universitario (Volponi è nato ad Urbino nel 1924), che a vent’anni, in pieni anni 40, quando con la guerra si mostrano le prime crepe del regime fascista, scrive i testi poetici sin qui inediti, ritrovati dattiloscritti nella sua casa urbinate e poi pubblicati con questa organizzazione. Il libro è introdotto da un saggio di Salvatore Ritrovato (“. Il primo tempo poetico di Paolo Volponi”), che colloca i testi nel contesto sociale, storico e letterario, ed è chiuso da una preziosa “Nota al testo” di Sara Serenelli, che ricostruisce puntualmente i testi pubblicati. Secondo Ritrovato siamo “di fronte a quaderni di lavoro, all’interno di un laboratorio in cui il poeta sperimenta, testa, saggia e non cestina”, che vanno in direzione delle prime due raccolte di Volponi. Infatti i testi sono sistemati in due sezioni “Verso ” (1948) e “Verso ” (1955).
Il percorso poetico è quello di un giovane, che cerca di lasciarsi alle spalle la provincia, “la pacifica e sonnolenta vita rurale cui Urbino, la città-palazzo forse più famosa a mondo, è in fondo sempre appartenuta” per cercare “la strada per Roma”. Una storia paragonabile a quella di Bianciardi. Questo ambiente si scontra con la voglia di Volponi di “gettarsi nella vita” e ne deriva “una miscela esplosiva”, che spiega il tono orgoglioso e corrivo di questi testi, i quali sono tutto meno che lirici, anche se parlano della natura, del paesaggio e delle ragazze. Dice Volponi in un’intervista (“A scuola da Paolo Volponi”, 1988), riportata da Ritrovato in esergo del suo saggio: “Perché scrivevo poesie allora, non ancora ventenne? … perché avevo ansia di conoscere … quale poteva essere il mio rapporto con il mondo”.
Nei testi vi sono modeste compromissioni con l’ermetismo allora dominante, dove la poesia si era rifugiata per sfuggire alla tragedia del presente fascista, così come l’aveva teorizzata nel 1934 Croce “contro ogni tentazione fascistizzante … non addomesticabile dalla politica” del regime. Vi è anche un netto rifiuto del dannunzianesimo e del poeta – vate (cfr. “L’eroe”). I testi sono duri in particolare nella scoperta giovanile del femminile e della sessualità, presente in molti di essi, che può essere scambiata da una lettura superficiale per “maschilismo”, ma che è invece percorsa da una vena ironica contro il perbenismo dominante dell’epoca. Si veda in proposito la poesia, riportata qui sotto, che Ritrovato definisce “emblematica”. Se vogliamo trovare un riferimento interno alla produzione poetica di Volponi, possiamo risalire alla sua ultima raccolta “Nel silenzio campale” (1990), le cui “rime petrose” fanno i conti con quanto rimane a fine battaglia delle illusioni e delle speranze di una generazione, che ha tentato di rivoluzionare il nostro paese dopo la Liberazione. Ricordiamo che Volponi lavorò con il partigiano Adriano Olivetti, alla fabbrica di Ivrea a capo di uno dei primi servizi sociali per i lavoratori e che partecipò con Bianciardi al famoso dibattito sul rapporto tra industria e letteratura negli anni del boom economico.
A p. 25
“Tu hai carne sostenuta.
Le spalle, le anche,
controllate immobili.
Troppo composta
sei salita sul letto.
Quasi con ironia.
Prima di abbandonarti
hai lasciato il cervello sul comodino.
C’è sempre qualcosa
in te, fisso che non partecipa.
Non ti possiedo mai, tutta.”
Si noti il sarcasmo di quel “quasi”, che sminuisce il desiderio di ironia dell’autore.