UMBERTO SABA
“ERNESTO”
EINAUDI, TORINO, 1978, pp. 136
Saba (1883-1957) è uno dei maggiori poeti italiani, che ha avuto il coraggio di affermare di preferire “un verso brutto, ma vero”. “Ernesto” è il suo unico romanzo, scritto quasi interamente nel 1953, quando era ricoverato a Roma in una clinica per i suoi disturbi nervosi ed era ormai alla fine della sua vita. Il romanzo è rimasto incompiuto ed inedito, è uscito solo postumo (1978) e in versione censurata dato la scabrosità dei contenuti. L’edizione integrale è del 1995 a cura di Maria Antonietta Grignani.
Nelle 13 lettere, che accompagnano l’edizione del 1978, egli cerca di spiegare le ragioni di questo lavoro “in articulo mortis”: un bisogno di liberazione dalle inibizioni: “la gente … ha un bisogno urgente … di essere… liberata dalle sue inibizioni. Questo sarebbe il mestiere della mia vecchiaia”. Saba lottò per una vita intera contro la propria nevrosi e fu uno dei pochi ad aver sperimentato la psicoanalisi, quando nella sua città, la Trieste di Svevo e Joyce, esercitava l’unico psicoanalista italiano allievo diretto di Freud (allora Trieste era parte integrante dell’impero austro-ungarico). Il dr. Weiss consultò in proposito il suo maestro, che rispose con un’alternativa secca: “o sano o poeta”, cioè Saba avrebbe potuto uscire dalla sua nevrosi solo amputando la sua creatività. Quindi rimase “nevrotico” fino alla fine dei suoi giorni. L'”Ernesto” è il suo tentativo di liberazione alla fine della vita. Egli racconta l’esperienza – evidentemente autobiografica – di una iniziazione omosessuale e del suo superamento attraverso altre esperienze. Nella stessa lettera già citata Saba scrive “Ernesto non aveva inibizioni, o poche poche, e in forma più graziosa che angosciosa (Non era un decadente, era un primitivo)”. In tutto il libro vi è un candore e un pudore dentro una sfrontatezza adolescenziale (Ernesto ha 16 anni) anche nei passaggi più espliciti senza mai diventare volgare. Ernesto è figlio unico di una madre severa che non può contare su un padre, ma solo su un tutore autoritario. Sembra la classica costellazione familiare che presiede alle esperienze omosessuali. Egli ha una passione per il violino, ma fa pratica commerciale presso un datore di lavoro tedesco molto austero e senza figli.
Nel suo magazzino conosce “l’uomo”, con cui avrà rapporti omosessuali, il cui nome non viene mai citato: è un manovale di 28 anni, molto delicato con lui, che sembra quasi il sostituto della figura paterna mancante. Per non incontralo più cerca di farsi licenziare e, non riuscendoci per i buoni uffici della madre, le confessa l’accaduto e viene autorizzato a dedicarsi al violino (una forma di sublimazione delle pulsioni sessuali). Prova con una giovane e dolce prostituta slovena un’esperienza eterosessuale. Il romanzo di chiude sull’amicizia artistica con il bellissimo coetaneo Ilio (anche questa è una sublimazione: è l’esperienza poetica di Saba). E’ evidente come sarebbe stato difficile far uscire un romanzo che trattava una materia incandescente come questa nei primi anni Cinquanta.
Vi è una ulteriore specificità del romanzo, che per me è da sempre motivo di grande fascino: tutti i dialoghi del romanzo sono in dialetto triestino, anche se “ammorbidito” (“Un dialetto un po’ ammorbidito e con l’ortografia il più possibile italianizzata, nella speranza che il lettore – se questo racconto avrà mai un lettore – possa tradurlo da sé”, è il primo capoverso del libro subito dopo il primo dialogo in triestino). Quando ho letto il romanzo nel 1979 ho avuto conferma di una mia idea, cioè che il dialetto in Italia è la lingua madre e come tale è la lingua insopprimibile degli affetti. Poi ho scoperto grazie a Camilleri che Pirandello lo aveva già detto molto prima e molto meglio di me.