Silvia Romano è la cartina al tornasole delle nostre coscienze. Come le reazioni alla sua vicenda umana assumessero una colorazione diversa a seconda dell’ambiente sociale con cui interagiscono: rosso, verde o blu. Corrispondenti al grado d’alcalinità: acido, neutro o basico. Metafora della condizione in cui versa lo stato d’animo della nostra comunità nazionale. Dello stato di salute della nostra Democrazia.
Qual è dunque il pH – il tasso di acidità o alcalinità – che viene fuori dall’Italia ai tempi del Sars-Cov-2? Piuttosto acido, a prendere atto di certe reazioni incattivite, vacuamente ideologiche e pretestuosamente motivate dall’identità cattolica.
Tuttavia, a ben guardare, non è proprio così. Faremmo torto a noi stessi come comunità nazionale, a dare troppa importanza a una piccola ma rumorosa coorte di minus habens. La cui esistenza in fondo è un bene per la società, perché la loro patente idiozia è utile termine di paragone che previene la tentazione di adeguarvisi. Livorosi e frustrati che hanno pronunciato e detto cose volgarissime ma soprattutto prive d’umanità ed empatia. Vette di pochezza che non esistessero, mancherebbe una metrica di ciò che è lecito e di ciò che non lo è. Espressione di una malarazza con deficit cognitivi travestiti da opinioni estreme. Figlie d’un disagio a vivere che invoca più compassione che indignazione.
Meno pietà meritano invece i cattivisti di professione, che recitano a soggetto per averne una ricompensa. Coltivandosi il proprio pubblico garantiti dal privilegio di una tribuna su testate e trasmissioni televisive che nulla hanno a che vedere col giornalismo e la libertà d’opinione. Campione di questo modo fraudolento d’esercitare una professione, il conduttore Mario Giordano. Grottesca caricatura di giornalista che in età piuttosto giovane ha già superato il capostipite dei fabbricatori di nefandezze e killer dell’informazione: Vittorio Feltri.
Ma andando oltre la patologia sociale, quel che è successo con la vicenda di Silvia Romano mette in luce un rischio che la nostra Democrazia sta correndo per banale sottovalutazione. Per travisamento, spesso inconsapevole, dei principi stessi su cui si fonda.
Troppi sono stati infatti – anche se sempre minoranza – coloro che hanno scambiato il proprio legittimo punto di vista sull’Islam o sull’inutilità del lavoro delle Ong nel Terzo mondo, con ciò che uno Stato come il nostro dovrebbe fare o meno in base a un giudizio morale. Peraltro spesso condizionato in modo evidente da piccole convenienze politiche legate alla contingenza. Al netto del fatto che nessuno di noi conosce cos’abbia passato Silvia Romano in diciotto mesi di prigionia, e quali siano le motivazioni della sua conversione all’Islam, c’è un motivo logico per cui i nostri servizi segreti debbano intervenire o meno per salvare una vita in base al capriccio di qualcuno e non alla cittadinanza? Possibile nessuno capisca che rivendicare la superiorità della cultura giuridica occidentale, la libertà che garantisce, e poi piegarla alla presunta identificazione della nazione con un’appartenenza religiosa, significa mettersi sullo stesso piano proprio della logica dell’estremismo islamico che si dice di voler combattere?
Come se l’Islam, peraltro, fosse un monolite. Come se in Italia non vivessero già oggi 2,6 milioni di musulmani (il 4,3% della popolazione residente, a fronte della media europea del 5%). Spesso perfettamente integrati. Dei quali un milione 140mila con la cittadinanza italiana. Cioè titolari di tutti i diritti che la cittadinanza comporta. Perché un’altra subordinata che ha messo in luce questa vicenda, è che sono in troppi ad avere un’idea falsata e distorta di cos’è oggi l’Italia. Che immaginano come un monolite corrispondente ai propri desiderata. Persone anche addottorate – il che è un’aggravante – ma che evidentemente non sono mai andate oltre il confine del proprio comune. E che se l’hanno fatto, non gli ha evidentemente giovato granché in termini d’apertura mentale.
Anche certi rigurgiti di uno pseudo-femminismo di ritorno, che ha scambiato il chador o il nijab per la persona che lo indossava, stanno nel novero della fenomenologia del travisamento della realtà. Perché sbraitare contro una ragazza che torna a casa dopo 18 mesi in cattività, rea d’indossare un abito “fuori ordinanza”, significa implicitamente non riconoscersi nei propri valori costituzionali. Significa non avere fiducia a prescindere né nella capacità del nostro sistema giuridico di tutelare la libertà di quella donna, né nella sua libertà e capacità di autodeterminarsi. Antico e tipico riflesso condizionato di chi giustifica con fini pedagogici la propria arroganza di sostituirsi agli altri.
Per non parlare delle vergognose e pruriginose sceneggiate di certa politica. Che cambia parte della barricata pro domo propria. Chi non ricorda la patetica e grottesca messa in scena allestita nel 2010 dal governo Berlusconi – Giorgia Meloni (quella “cristiana”) ministra della gioventù – che accolse a Roma Muhammad Gheddafi. Facendogli trovare 700 giovani italiane in atteggiamento da ossequiose frequentatrici di harem con tanto di cartellina con su scritto “Glorioso Corano”.
Questi atteggiamenti, di diversa matrice socio culturale, concorrono tutti a farci smarrire la strada di casa. Ad annacquare le regole della Democrazia liberale che fino ad oggi ci hanno portato prosperità e civiltà. Con un lento e progressivo smottamento culturale che minaccia d’indirizzarci alla deriva di certo autoritarismo moralista e liberticida. I cui fulgidi esempi di riferimento sono i vari Putin, Orban, Bolsonaro o Erdogan.
Silvia Romano troverà la sua strada e farà le proprie scelte. Noi, per parte nostra, cogliamo il pretesto della sua disgraziata vicenda per ritrovare la strada che stiamo smarrendo. E facciamolo prima che sia troppo tardi. Evitando di «confondere il culo con le quarant’ore», come in troppi hanno fatto in questi ultimi giorni tempestosi.