A guardare le cose con un certo distacco, sembra la pandemia da Covid-19 stia fungendo da cartina tornasole di tutti i nostri difetti e inadempienze nazionali. Uno dopo l’altro, i nodi vengono al pettine.
Dopo che non pochi hanno teorizzato che dovevamo lasciarli affogare, altri che bisognava cannoneggiare i barconi, e altri ancora – un po’ meno grave – che non era il momento politico adatto (quando mai lo è?) a regolarizzarli, oggi ci accingiamo con grande tempestività a dare loro i documenti. Almeno a quelli che servono a raccogliere frutta e ortaggi. Poi uva e olive.
Perché improvvisamente è diventato conveniente per tutti avere manodopera regolare, ma soprattutto disponibile a lavorare anche con in giro il Coronavirus. E perché è bene che emergano dal limbo, così vengono controllati anche sotto il profilo sanitario.
A essere regolarizzati saranno soprattutto gli odiati “neri”, quelli che molti frustrati col complesso d’inferiorità si divertivano a chiamare “risorse boldriniane”, perché Rumeni, Serbi e Bulgari quest’anno preferiscono stare a casa, piuttosto che rischiare il contagio per venire a lavorare nei nostri campi.
Anche a questo giro come Italiani non faremo una bella figura. La regolarizzazione è un atto riparatorio benvenuto, ma tardivo. E soprattutto, per le modalità con cui avverrà, aggiungeremo solo un altro mattoncino all’edificio fatto di recriminazioni, frustrazioni, rancori sociali e ingiustizie che da anni va ampliandosi.
Anziché offrire opportunità di emancipazione, lavoro e crescita civile a chi viene da realtà violente, diseredate e prive di garanzie, riaffermando nei fatti i valori universali che hanno caratterizzato l’Europa e la sua civiltà giuridica, ci limiteremo a una burocratica sanatoria da convenienza economica. Gettando le basi per sentimenti di rivalsa che prima o dopo emergeranno, invece di dare l’opportunità per sentirsi orgogliosi di diventare parte di una comunità.
Non ci vuole d’essere aquile per capirlo. Davvero non serve un’intelligenza superiore.