GROSSETO – Bisogna provare per capire. Recita l’adagio. Stare chiusi in casa giorni e giorni per quasi tutti si spera sia un’esperienza transeunte. Figlia della maledizione del coronavirus. Ma per una platea non piccola di persone è una condanna. Quasi sempre inappellabile.
Nel gergo algido e antiestetico della psichiatria o della psicologia sociale li definiscono “ambienti confinanti”. Una parafrasi perbenista, che descrive la condizione di isolamento che affligge la vita di molte categorie di persone. In qualche modo relegate in un ambiente circoscritto in virtù delle loro caratteristiche intrinseche. Ambiente che nasce come “protetto”, ma finisce per essere escludente. Impermeabile alla vita che scorre, là fuori. Spesso, ineluttabilmente, oltre la volontà di chi ha progettato quegli ambienti con l’intento positivo di proteggere.
Non è difficile capire di chi si tratta. Vecchi rimasti soli in casa propria. Vecchi relegati nelle case di riposo. Persone con disabilità seppellite in casa, o confinate nei diurni, in case famiglia isolate dal mondo. Migranti chiusi per anni nei Cas in attesa di una sentenza che ne riconosca il diritto al permesso di soggiorno. Malati cronicizzati di ogni tipo. Bambini negli orfanotrofi. Emarginati di varia natura.
Per molte persone la quarantena è a vita. Spesso nemmeno deliberata formalmente.
Svaporato l’incubo del coronavirus, sarebbe rincuorante che tutti noi che abbiamo nostro malgrado testato le distonie generate dall’isolamento, dalla rarefazione delle relazioni umane, dalla ripetitività delle giornate e dall’alienazione, si ricordassimo di queste persone. E facessimo qualcosa per loro, trovando un po’ di tempo da dedicargli quando riassaporeranno il piacere della frenesia. Tutto qui.