FOLLONICA – Correre alla Parigi –Dakar non è cosa di tutti giorni, così contatto Matteo Casuccio, il follonichese che cinque anni fa partecipò alla gara, e gli chiedo se può dedicarmi un po’ del suo tempo per ricordare quell’esperienza di cui sicuramente ha ancora tante cose da raccontare e lui volentieri mi dice di sì.
Matteo, intanto grazie per avermi dato la possibilità di parlare un po’ con te. Per raccontare di questa grande impresa, partirei dall’inizio. Immagino che fin da piccolo tu abbia avuto una grande passione per la moto. Che cosa ti ha spinto ad affrontare una competizione di questo tipo?
In realtà non è proprio così. La passione per le moto è stata una cosa abbastanza tardiva, ho comprato la mia moto poco dopo i 30 anni, e quando ho corso la Dakar erano solo quattro che svolgevo competizioni.
La passione per i motori in casa c’è sempre stata. Ricordo di essere stato con mio babbo nel 1990, poco dopo la caduta del muro di Berlino, a vedere il GP di F1 a Budapest. Allora avevo solo 13 anni, e fu un’esperienza stupenda: al circuito in Ungheria non c’erano ancora neanche le tribune.
Mio babbo Raffaele però, con l’avvicinarsi della mia età utile per guidare il primo motorino, si sbarazzò della sua ultima moto nel vano tentativo, a questo punto si può dire, di non trasferirmi questa passione.
E per molti anni ha anche funzionato in effetti. Da piccolo ho iniziato a fare vela, poi windsurf, poi surf da onda, e grazie a questi sport ho avuto molte occasioni di viaggiare e solcare oceani lontani.
Una volta ristabilitomi in Maremma, tardivamente, spinto dalla mancanza delle onde e sposando il lato avventuroso della moto, mi sono dedicato alla pratica dell’enduro. Poco dopo, aggiungendo le capacità di navigatore apprese per mare, mi sono cimentato nei primi rally raid in moto, disciplina che, insieme alla velocità, premia la capacità di orientamento e della quale la massima espressione è appunto la Dakar.
La mia partecipazione è stata un importante exploit da un punto di vista sportivo, non tanto per il risultato finale, in effetti non degno di nota, ma perché per gli amatori raggiungere il traguardo al primo tentativo è in effetti molto improbabile. Per di più io venivo anche da una esperienza di gare direi limitata, ma certamente tutte le altre esperienze fatte mi hanno aiutato.
Per prepararti quale allenamento hai seguito?
In realtà all’epoca della Dakar ero ancora un lavoratore dipendente, al contrario di oggi, e quindi la gestione del tempo era più limitata. Comunque la moto, come molti altri sport, non ha una preparazione propedeutica migliore dello stesso andare in moto, anche se direi che la preparazione fisica alla Dakar è uno degli aspetti importanti, ma non certo il più importante. In questo senso, il lavoro fatto con il mio mental coach, Benini di Siena, per questa avventura è stato sicuramente più fondamentale dei muscoli: in tutte le esperienze che ci spingono al nostro limite, e da allora ho avuto la voglia ed il piacere di provarne altre, perché è vero se ne diventa dipendenti, ho imparato che la forma fisica è quella piattaforma di appoggio necessaria certo, ma non sufficiente, sul quale costruire ragionamenti lucidi, che sono in effetti alla fine quelli che ti salvano e risolvono i problemi.
Un itinerario impegnativo, che ha toccato vari paesi del sud America con partenza da Buenos Aires…
Nell’edizione 2015, il percorso partiva e tornava a Buenos Aires con un anello lungo 9mila 300 km totali, di cui circa 6mila di tratti cronometrati attraverso Argentina, Cile, Bolivia.
Il territorio sudamericano offre in effetti una varietà di terreni e fasce climatiche che hanno messo a dura prova i concorrenti, soprattutto quelli in moto ovviamente, perché più esposti agli eventi atmosferici: ricordo per esempio un giorno in cui in trasferimento sulle Ande al mattino oltre i 4mila metri di altitudine, abbiamo preso temperature intorno ai -10°C, e lo stesso pomeriggio nella pampa abbiamo svolto una speciale in mezzo al feshfesh con quasi 50°C. Negli occhi, comunque, mi rimangono paesaggi pazzeschi e le bellezza di tutto il popolo sudamericano, che è una delle ricchezze più grandi di quelle terre.
Un’esperienza la tua che ha dell’avventuroso: ce la vuoi raccontare?
La Dakar nasce come massima espressione delle competizioni motoristiche, ed è studiata appositamente per misurare i campioni e professionisti di questo sport con qualcosa che li porti al limite delle loro capacità e resistenza. Vista in quest’ottica, si capisce che per un amatore non professionista è qualcosa di inimmaginabile, e confermo, così è stato.
E’ un’avventura grandissima e grandiosa in cui dai fondo a tutto quello che hai per raggiungere un obiettivo oggettivamente fuori o molto al limite della tua portata: a me, provarci e riuscirci, ha letteralmente cambiato la vita.
Da queste esperienze si torna con una consapevolezza di sé stessi che, se non fosse così complicato (e costoso, ahimè) partecipare, è certamente un’esperienza che consiglierei a tutti.
Qual è il ricordo a te più caro?
Ci sono diversi ricordi a me cari di questa esperienza, perché, seppur duri due settimane, in realtà una Dakar è un concentrato di vita che ti lascia più di quanto possano fare a volte mesi ed anni spesi nell’inerzia della normalità.
Il primo ricordo sono le mie bambine Inès e Cloe in braccio con me sul palco di partenza, montato per l’occasione davanti a Casa Rosada, nella famosa Plaza de Mayo di Buenos Aires, in mezzo ad una folla oceanica di oltre un milione di persone che acclamava i concorrenti indifferentemente dalle loro capacità o ambizioni di vittoria.
Il secondo ricordo è quello di una notte trascorsa in mezzo ad una valle Andina, in un piccolo agglomerato di case, dove, in seguito ad un problema alla moto, ho trovato riparo ed aiuto nel garage di un giovane meccanico locale che mi ha aiutato a smontare e rimontare la moto fino a farla letteralmente a pezzi, fino a che, quando pensavo che le mie possibilità di riprendere la gara fossero svanite, abbiamo trovato il problema (come sempre una cosa minima, impensabile), lo abbiamo risolto e sono potuto ripartire.
Il suo nome è Maxi, siamo ancora in contatto via Facebook ed ho promesso che prima o poi tornerò a Cachi, nella provincia di Salta, a trovarlo. Un altro, doloroso in questi giorni, ricordo è quello degli ultimi km della ultima speciale prima del traguardo: quella che doveva sembrare una formalità che ci portasse alla festa del traguardo, circa 200km di strade sterrate nelle campagne di Buenos Aires, a causa di un nubifragio si è trasformata nell’ennesima sfida per il fango e il fondo impraticabile. Ad un certo punto hanno interrotto la speciale prima del previsto, e per pura casualità mi sono trovato in quel momento della neutralizzazione insieme a Marc Coma, vincitore di quella edizione, e Paulo Goncalves, secondo in quella edizione, il pilota che è tragicamente scomparso proprio ieri durante la settima tappa della Dakar 2020, prima edizione in Arabia Saudita.
Mark Twain diceva: “Tra vent’anni non sarete delusi dalle cose che avete fatto ma da quelle che non avete fatto. Allora levate l’ancora, abbandonate i porti sicuri, catturate il vento nelle vostre vele. Esplorate. Sognate. Scoprite” Cosa ti sentiresti di dire tu a questo proposito?
La Dakar è stata per me un’esperienza di vita prima che una gara, e consiglio a tutti di misurarsi con qualcosa, qualunque cosa sia, che li porti a conoscere i propri limiti e se stessi una volta denudati di tutto. Ho fatto mio questo concetto e questo insegnamento attraverso un motto che condivido con chiunque abbia voglia di provarci e sia disposto ad accettarne le conseguenze: “Life is out of there”, che è, in effetti, in qualche modo la sintesi della frase di Mark Twain o lo slogan del concetto da lui espresso. Ho imparato dalla Dakar che c’è molta vita oltre i nostri limiti, oltre le nostre convinzioni e convenzioni, e sì, accettarne il compromesso è sicuramente pericoloso, ma non più di rinunciare a vivere.