Un sindaco (di Piombino) che licenzia un sindaco (di Monterotondo Marittimo) perché facendo il sindaco nel comune dov’è stato eletto, non va a lavorare nel Comune di cui è dipendente. Peraltro utilizzando permessi previsti dalla legge, e garantiti dalla Costituzione.
Parrebbe una sciarada, variante della disciplina enigmistica, oppure una questione da azzeccagarbugli, di quelle che appassionano solo i cultori del diritto formale. Invece quel che è toccato di subire a Giacomo Termine, trentenne sindaco piddino di Monterotondo Marittimo, costituisce un sopruso inaccettabile. I cui risvolti politici e culturali vanno molto al di là della vicenda in sé stessa. Che, senza nessun dubbio, si concluderà in tribunale con una sconfessione totale dell’operato del sindaco di Piombino, il fratello d’Italia Francesco Ferrari. Al quale, nella poco confortevole veste professionale di avvocato, toccherà dare pubblicamente atto di aver preso un gigantesco granchio. Con probabilissimo risarcimento del danno. Si accettano scommesse.
Che la cosa sia grave sotto il profilo giuridico, lo capirebbe anche un modesto azzeccagarbugli. Basta leggersi l’articolo 51 della Costituzione italiana: «tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini». E poi, al terzo comma: «chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto di disporre del tempo necessario al loro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro». Detto in altre parole, il licenziamento di un dipendente comunale perché ha usufruito dei permessi garantiti da legge e Costituzione per svolgere il proprio ruolo di pubblico amministratore, è un atto fortemente discriminatorio. Tanto più se motivato col fatto che il dipendente-sindaco è stato licenziato perché, nel periodo di prova, non è stato possibile valutarne le capacità per le assenze dal lavoro. Come è stato scritto per giustificare il licenziamento.
La Costituzione, come sanno anche quelli che hanno lasciato l’università di fronte al moloch dell’esame di diritto privato, è norma cogente e direttamente precettiva. Per cui lo svolgimento di un mandato elettivo, non può essere limitata né da un contratto né da una volontà politica. E la norma costituzionale non tutela solo l’interesse legittimo del singolo (amministratore), ma anche quello collettivo della comunità ad essere amministrata. In tribunale si sbellicheranno, c’è da giurarci.
Ad abundantiam, direbbero quelli bravi, in questa kafkiana vicenda, rileverebbe anche il fatto che, oltretutto, il Comune di Piombino ha assunto Giacomo Termine sapendo perfettamente che già svolgeva il ruolo di sindaco a Monterotondo Marittimo. Andando addirittura a sottrarlo al Comune di Gavorrano, di cui era già dipendente, in virtù dello scorrimento di una graduatoria del Comune di Campiglia Marittima – a cui Piombino è associato – nella quale il povero Termine era finito a seguito di regolare concorso pubblico. Insomma giudici e avvocati avranno di che baloccarsi.
Ma se la tutela di una funzione istituzionale è questione di rilievo giuridico, il problema che ha originato quest’assurda vicenda è politico e culturale. Non di piccola rilevanza, e che solleva una enorme questione etica.
Perché anche un cieco vede che tutto ha origine da una motivazione di natura politica, alla quale non riesce a far velo l’interpretazione da azzeccagarbugli della legge. Che ha “giustificato” il licenziamento. Giacomo Termine è infatti incidentalmente anche segretario provinciale del Pd maremmano e presidente della Conferenza dei sindaci della Asl Toscana Sud Est. La chiave di lettura politica di questa bizzarra vicenda è data per ovvia da chiunque in provincia di Grosseto. Compresi i non pochi politici e amministratori di Centrodestra, imbarazzatissimi per il colpo di genio del sindaco piombinese fratello d’Italia.
Al di là delle etichette politiche, comunque, questa storia è brutta perché presuppone la peggiore cultura forcaiola, populista e demagogica. L’obiettivo lampante, infatti – che solo la malafede può negare – è delegittimare la persona (Giacomo Termine) contando di farla passare per la classica “leggéra” che non ha voglia di lavorare, e che approfitta del proprio status di dipendente pubblico. E con lui il partito che rappresenta.
Cosa relativamente semplice da fare in una temperie “culturale” che da anni mette a prescindere all’indice la politica – da parte di politici – delegittima i ruoli istituzionali, e ha ottenuto, per dirne una, lo splendido risultato di mortificare i sindaci dei piccoli Comuni. Ai quali sono state ridotte le indennità di funzione a cifre ridicole. Come nel caso di Termine che, ad esempio, amministra Monterotondo Marittimo per la bella indennità di 450 euro/mese. Non un caso che il sindaco di Roccalbegna, di tutt’altra parrocchia politica, abbia subito manifestato la propria vicinanza a Termine.
Una subcultura diventata a tratti egemone, purtroppo trasversalmente agli schieramenti, che approfittando dei non pochi casi di malversazioni e comportamenti indecorosi da parte di un bel po’ di eletti e politici, ha fatto di tutta l’erba un fascio. Equiparando, in quanto tali, politici e amministratori a delinquenti. Esaltando l’inesperienza politica come valore aggiunto. Togliendo il finanziamento pubblico trasparente ai partiti. Tagliando le indennità di funzione a livelli umilianti. Ottenendo il glorioso risultato di incentivare alla carriera politica e all’amministrazione pubblica benestanti signorotti o ambiziosi trafficoni. Tanti parvenu privi d’ogni dote, ma in compenso ebbri d’ambizione. Questa è la filiera “culturale” da cui ha preso le mosse la scelta di un licenziamento illegittimo, e che minaccia – questo l’altro aspetto gravemente sottovalutato – i diritti di qualunque lavoratore, pubblico e privato. Perché se per disgrazia diventasse sindacabile da qualunque datore di lavoro – pubblico o privato – il diritto a godere dei permessi per svolgere il ruolo di sindaco o assessore, non si vede perché nel breve volgere di tempo non dovrebbero diventare “disponibili” altri diritti. Naturalmente con l’adeguata motivazione che non si può fare altrimenti. Come mantenere il posto di lavoro se si rimane incinta, oppure se si subisce un infortunio grave.
Nell’attesa che questa storia di provincia profonda produca l’esito scontato che merita. E in quella delle motivazioni che i giudici stenderanno nella sentenza. È forse bene che tutti quanti riflettano sui rischi che si corrono. Anche se si dice in politica sia tutto lecito, infatti, sarebbe stupido confondere le manovre machiavelliche coi machiavellismi. Ovverosia «il culo con le quarant’ore».