«Le streghe son tornate», verrebbe da dire resuscitando un vecchio slogan femminista degli anni 70. A Grosseto come nel resto d’Italia. Stando ai numeri delle manifestazioni dilagate in giro per il Paese in occasione dell’otto marzo, “giornata internazionale della donna”. Non più “festa” della donna in ossequio a un luogo comune oramai lacero, a fronte della nuova connotazione della ricorrenza improntata all’idea di lotta nella quale si riconoscono le suffragette contemporanee. Stanche di celebrare in modo retorico la loro esclusione dai ruoli apicali nella società.
Un otto marzo non a caso declinato in “Lotto marzo” dal movimento neofemminista “Non una di meno”, che ha chiamato le donne a uno «sciopero globale transfemminista». In un vasto fronte con il coordinamento delle donne di Cgil, Cisl e Uil, i Centri antiviolenza, Di.Re – donne in rete contro la violenza, Rete delle donne e moltissime associazioni locali. Una galassia composita, con matrici culturali anche diverse fra loro, ma sempre più vasta, coesa e capillarmente diffusa sui territori.
Fin qui niente di clamorosamente nuovo, parrebbe. A Grosseto come nel resto d’Italia. Un po’ d’inossidabili “vecchie babbione” femministe che (fortunatamente) riemergono imperterrite a ogni otto marzo, con il rinforzo di un po’ di combattive esponenti delle giovani generazioni, dure e pure. Che magari guardano al modello “Femen”.
Ma a mettere il nuovo protagonismo femminile sotto la lente d’ingrandimento, non è proprio così. Perché a questo giro le donne che si mobilitano non hanno l’aspetto e la postura delle streghe – archetipo iconoclasta d’antan – ma piuttosto quella di moderne amazzoni. Le donne guerriere della mitologia greca che si amputavano un seno per meglio tirare d’arco, le cui gesta ci sono state trasmesse dai racconti di Omero ed Erodoto.
L’impressione netta, infatti, è che almeno per quanto riguarda l’Italia, dove a differenza di molti Paesi europei le donne sono confinate ai margini da un’ineffabile conventio ad excludendum maschilista, per la sempre auspicata e mai realizzata emancipazione femminile siamo davvero a uno di quei tornanti della storia in cui si verifica il salto di qualità. A catalizzare le energie che premono per il cambiamento, fatalmente, è il famigerato disegno di legge “Pillon”. Che avrebbe l’oscena ambizione di ricondurre il diritto di famiglia nell’alveo della più retriva e integralista tradizione conservatrice. Ripristinando il canone aureo della centralità sessista dell’uomo, ma soprattutto mettendo all’angolo la donna che culturalmente regredirebbe al ruolo di fattrice e angelo del focolare…. perdendo anche le poche posizioni fin qui conquistate. Disegno di legge che è lo scintillante manifesto dell’offensiva neo conservatrice, che senza più dissimulare i propri obiettivi mira a ridimensionare il diritto al divorzio, all’aborto e alla libertà di contraccezione. Ma anche l’autodeterminazione rispetto all’orientamento sessuale e alle scelte di genere. I segnali sono oramai inequivocabili.
Per questo, come in occasione delle mobilitazioni per i referendum abrogativi delle leggi su divorzio e aborto nel 1974 e 1981, il fronte che si sta organizzando contro il Ddl Pillon porterà una grande ventata di modernizzazione ed emancipazione nella società italiana. Non più semplicemente nella logica conservativa di difesa dell’esistente, ma dello stravolgimento dell’intero assetto degli equilibri sociali. La contrapposizione frontale e senza tregua alla subcultura malata del machismo che alimenta il fenomeno indegno dei femminicidi – con grottesche sentenze che ne attenuano la responsabilità penale per «tempesta emotiva» – è d’altra parte l’altro motore del cambiamento. Perché oramai le donne rifiutano l’idea che culturalmente si debba puntare sull’autodifesa rispetto alle prevaricazioni maschili, invece che sull’educazione al rispetto per la loro libertà di comportamento e volontà di autodeterminazione.
Come spesso è successo nel corso della storia, proprio nel momento dell’apparente trionfo della conservazione, cui corrisponde l’affermazione al governo della più intransigente destra politica, la reazione a tutela dei diritti civili riesce a organizzarsi e a trovare la strada per affermarsi nella società. Con ogni evidenza, infatti, oggi le donne hanno una maggiore consapevolezza dell’ingiustizia patente che in Italia le vede penalizzate nell’accesso al mercato del lavoro, delle disparità di trattamento economico a parità di mansioni con gli uomini o delle barriere occulte nelle carriere lavorative. Così come dell’assenza colpevole di politiche efficaci di conciliazione dei tempi di lavoro e famiglia.
In definitiva, non è azzardato dire che la slavina si è mesa in moto e che presto travolgerà le pretese sessiste, misogine e codine di chi vuole imporre per via normativa la propria visione morale dell’organizzazione sociale. In una società che di fatto, al netto dei pur numerosi ed eclatanti fenomeni di devianza, è tuttavia molto più aperta e tollerante di chi ha o ha avuto responsabilità di governo.
Casomai, in termini culturali, il pericolo per le donne può venire solo da alcune di loro. O meglio dall’affermarsi fra le donne di modelli comportamentali di chiaro stampo maschile. In altre parole, se al patetico “celodurismo” di cui su piazza sono sovrabbondanti gli esempi, si decidesse di contrapporre un “clitordismo” uguale e contrario, allora verrebbe meno la capacità d’innovazione degli schemi comportamentali alternativi a quelli ancora oggi prevalenti.
Onestamente, al di là delle “cattive maestre” che pure ci sono, il rischio pare scongiurato. E uno dei segnali più chiari che le cose procedono nella direzione giusta, è che da un po’ di tempo a questa parte l’8 marzo dura tutto l’anno.