GROSSETO – Una lettera a cuore aperto. È quella che ci ha inviato Imma L., una nostra lettrice, dopo la morte del padre. Nella lettera Imma ricorda il mese di degenza del babbo in ospedale, il ricovero per fare accertamenti quasi di routine, la scoperta di una grave malattia, i giorni di incertezza e infine la morte. «È mancata completamente l’empatia – racconta – il prendersi cura di una persona non solo clinicamente».
«Sono passati dieci giorni dalla scomparsa del mio papà – racconta Imma nella sua lunga lettera firmata -. Ho lasciato decantare il mix di emozioni che si sono affastellate con veemenza, la rabbia, il dolore acuto, la confusione, lo stordimento, l’incredulità . È rimasta imponente, oltre al dolore profondo, l’amarezza per come si è svolta la nostra storia. Una storia come tante, come mille. Il mio babbo è entrato in ospedale per effettuare degli accertamenti e ne è uscito un mese dopo in fin di vita. Purtroppo gli è stata diagnosticata una gravissima malattia che non gli ha concesso nessuna via d’uscita. Una storia come tante, appunto, come mille. E come tante è stata trattata dai medici dell’ospedale. Peccato che quella che per loro era l’ennesima storia per noi era la nostra vita che andava in pezzi. Dal momento in cui è entrato in ospedale, il mio babbo è diventato un numero, è diventato un letto, il suo caso una pratica da espletare con un protocollo rigido da applicare. Punto.
Io non credo che i medici abbiano commesso errori diagnostici o tecnici rilevanti, o quanto meno determinanti. In questo sono stati precisi e lucidi. Ma errori di comunicazione, di sensibilità, di comprensione, sì, molti. Nessuno si è preoccupato di guardare mio padre negli occhi con rispetto per la sua storia, per la sua vita. È mancata completamente l’empatia. Credo che la capacità di empatia sia l’unità di misura della qualità di un medico, di una struttura sanitaria. Certo, l’empatia è usurante, la professione medica è usurante, forse la più usurante di tutte. Ma tant’è. Il prendersi cura, non solo clinicamente, di una persona che sta male, dei suoi familiari, pur essendo difficile, dovrebbe essere prioritario e dovrebbe sapersi spogliare di ogni burocrazia. Così non è stato.
Noi siamo stati lasciati soli, nella confusione, nell’incertezza, nella disperazione, per un mese. Il mio babbo non ha mai perso la sua lucidità eppure è stato trattato come persona incapace di intendere e di volere, incapace di qualunque autonomia. Nessuno si è mai avvicinato a lui per spiegargli correttamente cosa gli stesse accadendo e nessuno ha aiutato noi nel farlo. Ha dovuto costruire da solo la verità e da solo trovare una risposta alle sue domande. Ci hanno dato notizie agghiaccianti così, in piedi nel corridoio, appoggiati al muro,tra l’andirivieni dei visitatori e i carrelli delle vivande. Non siamo mai stati informati con chiarezza sulle terapie che venivano somministrate e sulle loro frequenti variazioni. Quando, presi dallo sconforto, volevamo portarlo via, ci hanno fortemente scoraggiato salvo poi, dopo tre o quattro giorni, comunicarci che era giunto il momento di “sloggiare”. Non credo che si possa dire, disinvoltamente e senza provare imbarazzo, ai familiari di un paziente in gravissime condizioni, che sono scaduti i termini di permanenza. A cosa serve allora pagare diligentemente le tasse per tutta una vita se questo è il trattamento riservato al momento del bisogno? Mi viene da chiederlo. Il mio papà ha affrontato la sua strada da solo, senza l’aiuto di nessuno, se non con il conforto di noi familiari,con una forza, un coraggio, una dignità straordinari, lo voglio dire a tutti, lasciandoci una grande lezione di vita. Anche a voi signori medici, che a volte dimenticate di aver fatto un giuramento anni fa, a voi a cui chiedo con fervore e gentilezza di non scordare, se potete, che dietro ogni numero, ogni letto, ogni caso, c’è un universo di storie, uniche, preziose ed irripetibili. E per questo sacre. Come quella del mio papà, di cui non conoscerete mai il valore inestimabile.
L’ ultimo giorno di degenza in fase di dimissioni mio babbo è stato malissimo, il suo giorno peggiore, aveva dei dolori fortissimi, insopportabili, aveva le mani blu fino agli avambracci, non si poteva toccare perché era tutto un dolore. Per lui sia il viaggio in ambulanza che l’arrivo a casa con due piani di scale senza ascensore sarebbero stati un vero calvario. Abbiamo supplicato di rimandare le dimissioni almeno di un giorno, fino a quando la situazione non si fosse un po’ placata. Supplicato. Per tutta risposta il medico presente ha sentenziato che le misurazioni dei parametri vitali erano buone, gli hanno sparato un antidolorifico, lo hanno inchiodato su una barella spinale con una piaga da decubito di cui, scorrettamente, non ci avevano mai informato, e lo hanno mandato a casa senza deroghe. Il mio babbo ha sofferto le pene dell’inferno durante quel tragitto. Solo la sua fibra eccezionalmente forte glielo ha fatto superare. Ciò è intollerabile. Altro che empatia! Questo lo rinfaccio apertamente ai medici, con profondo sdegno.
La nostra storia è questa. Una come mille. Una come tante. Vorrei che potesse servire per far riflettere. Vorrei poter dire che sia stata l’ultima».