La violenza sessuale è uno dei crimini più efferati e odiosi. Utilizzare una violenza sessuale per additare alla pubblica opinione categorie di persone sulla base di cittadinanza, etnia o religione, è pericoloso e perfettamente inutile. Il rispetto e la compassione per la vittima, imporrebbero quindi misura e un atteggiamento responsabile. Ché dispensare rancore e invettive demagogiche sui social network o sui media è auto-gratificante o funzionale a chi lo fa, ma non dà alcun contributo costruttivo.
Dopo quello che giovedì mattina è successo nel parcheggio dell’ex campo degli arcieri, sotto i bastioni delle mura medicee in via Fossombroni, merita fare un ragionamento serio sul tema della sicurezza urbana. Avendo chiaro che bisogna tenere insieme due obiettivi: garantire incolumità e libertà di movimento alle donne, e più in generale a qualunque persona, ma anche evitare la colpevolizzazione generica degli immigrati. Cosa che, oltre che ingiusta, porta a fare scelte demagogiche del tutto inefficaci sul piano pratico.
Una quadratura del cerchio difficilissima, non tanto a Grosseto, dove gli episodi di violenza sessuale si contano sulle dita di una mano negli anni, ma in ogni parte del mondo. Soprattutto nei centri urbani, nelle loro aree degradate o marginali. Peraltro, al di là degli slogan triti e ritriti sulla sicurezza, in quest’ultimo caso c’è il sospetto di una sottovalutazione dell’evidente pericolosità del percorso pedonale che collega via Saffi a via Fossombroni, notoriamente mal frequentato.
Siccome, a parte gli scienziati dei social, nessuno ha la bacchetta magica – che per inciso viene regolarmente agitata in campagna elettorale e poi riposta nel suo astuccio – bisogna procedere per tentativi, guidati il più possibile dal raziocinio. Avendo chiaro che la repressione è solo una delle strategie d’intervento, e non la più efficace.
Intanto: non è vero che esisteva la “Grosseto di una volta”, nella quale tutti potevano muoversi al sicuro in qualunque angolo di città a qualunque ora del giorno o della notte. Il mito della “valle dell’Eden” è la classica narrazione tossica che non contribuisce a inquadrare i problemi per quello che sono, ma a incanalare le scelte nella direzione sbagliata. Chi ha qualche anno sulle spalle, ricorda bene il clima degli anni 80 e 90, quando interi pezzi del centro storico, delle mura medicee e altre aree della città erano ampiamente colonizzate dallo spaccio di eroina, in preda a degrado e microdelinquenza. Oppure i più recenti blitz vandalici di gruppi di ragazzini ubriachi, che non disdegnano risse e accoltellamenti. Cioè a dire: il problema del decadimento della vivibilità e della violenza urbana esistono da sempre. A cambiare nel tempo sono i protagonisti. Con la costante di risposte basate sull’approccio repressivo, estemporanee e del tutto improduttive.
Oggi rispetto al tema della violenza sulle donne nel mirino dell’opinione pubblica ci sono gli stranieri, in particolare gli extracomunitari. Ed è evidente il fatto che l’ultima aggressione perpetrata in città da un delinquente egiziano ai danni di una donna, dia la stura a un rancore sociale già sopra al livello di guardia.
Senza sottovalutare né le ragioni di chi esprime il bisogno di sicurezza, né la legittima diffidenza nei confronti di persone che provengono da altre culture, bisogna farsi però la domanda giusta. Ovverosia: il problema sono semplicemente i migranti o c’è dell’altro? Perché, solo per fare un esempio, se guardiamo alle donne uccise in provincia di Grosseto negli ultimi anni, si scopre che gli assassini erano tutti italiani, e quasi sempre il movente era riconducibile a motivazioni sessuali o a una malsana idea di possesso. Ultima in ordine di tempo, lo scorso febbraio, Anna Costanzo, 68 anni, strangolata dal marito nella sua casa a Monte Argentario. Preceduta a sua volta da Irina Meynster, 47enne, uccisa in maniera brutale nel 2014 da Sergio Bertini. Francesca Benetti, insegnante 55enne assassinata nel 2014 a casa sua a Potassa da Antonino Bilella. Mirna Bartolini, ammazzata, fatta a pezzi e bruciata nel 2004 dal compagno Pasquale Stabilito, o la prostituta Mercy Igbinova trovata morta al bivio per Punta Ala nel 2003. Oppure ancora Giusy Cuccia, che a 39 anni, nel 2002, fu uccisa in piazza ad Orbetello con un colpo di pistola, e Luciana Catocci, ammazzata nello stesso anno insieme alla figlia dal marito nella sua casa di Gorarella.
Il problema quindi non è tanto quello degli stranieri – che in provincia sono 22.000 e generalmente sono ben integrati – ma la resilienza di una subcultura violenta e prevaricatrice tipica del machismo. Gli uomini, cioè, che in quanto tali si sentono autorizzati ad esercitare varie forme di coercizione nei confronti delle donne, in una visione proprietaria che portata alle estreme conseguenze sfocia nella violenza fisica e sessuale. Una “visione” marcia dei rapporti tra uomo e donna che continua ad essere fin troppo diffusa anche fra gli uomini, italiani, bianchi e teoricamente moderni ed emancipati.
Certo, per esser chiari, è molto più probabile che questo tipo di subcultura sia diffusa fra gli uomini provenienti da alcuni Paesi del secondo e terzo mondo. Non c’è dubbio. Anche se gli automatismi e i determinismi meccanicisti tra nazionalità e propensione allo stupro sono indegni di un essere ragionevole e raziocinante. Retaggio velenoso delle teorie lombrosiane.
Come contrastare questo fenomeno, lavorando sulla prevenzione della violenza sessuale invece di affidarsi alla sola repressione? Che arriva fatalmente a cose già fatte? Chiudere i confini agli stranieri è – diciamo così – “suggestivo” ma impraticabile, incivile e discriminatorio. Oltre al fatto che proprio non ce lo possiamo permettere, come ci ricordano oramai a scadenza regolare i dati sulla crisi demografica dell’Italia. L’unica strada percorribile ed eticamente giusta, quindi, è quella di lavorare seriamente e continuativamente sui meccanismi e i percorsi d’integrazione. A partire dalle scuole, dove crescono e si formano una coscienza civica migliaia di studenti stranieri di prima e seconda generazione (in provincia di Grosseto circa 3.000). E dove spesso i loro genitori hanno il primo vero confronto culturale con i valori liberali e libertari che ancora informano la nostra convivenza.
Questo però non può bastare, perché bisogna dare una risposta al problema oggettivo della presenza di un certo numero di sbandati e a quello della percezione diffusa di insicurezza, anche quando questa non è giustificata dalla statistica. Senza snobismi.
Anche in questo caso, tenuto conto che non ci saranno mai abbastanza carabinieri e telecamere per controllare tutto e tutti – oltre al fatto che proprio non è auspicabile il grande fratello – l’unica scelta sensata è quella dell’integrazione e del “controllo sociale”, inteso in senso buono. Quello cioè che si esercita attraverso la rivitalizzazione dei centri storici e delle aree degradate reinsediandovi abitanti e attività economiche. Oppure valorizzando il ruolo delle associazioni e dei cosiddetti corpi intermedi, che prima fossero marginalizzati dalla moda imperante del populismo, riuscivano a produrre mediazione sociale e contenimento dei conflitti. In questo senso, taglio delle risorse, chiusura dei centri di accoglienza speciali (Cas) e soprattutto degli Sprar, esempio virtuoso d’integrazione, sono il presupposto perfetto per creare altri gravi problemi sociali. Senza i quali poco si giustificherebbe certa retorica.
Bisogna cioè rimettersi al pezzo e ricostituire una rete di relazioni umane e simboli valoriali che restituiscano alle comunità incattivite il respiro vitale della serenità e dell’empatia. L’alternativa a questo scenario, che i grotteschi “cattivisti” bolleranno senza meno come buonismo di sinistra, è lo sfogatoio solipsistico e onanista cui assistiamo sui social. Associato a “memorabili” competizioni “politiche” fra chi è più securitario, cazzuto e fautore di disciplina e ordine. Fino al prossimo tentativo di stupro, stupro effettivo o femminicidio. E magari ai primi scaricabarile, com’è già evidente in questi ultimi giorni.
Chi si ostina a pensare che si possa risolvere tutto con qualche ronda, come scolpisce un caustico e sboccato modo di dire maremmano, «non vedrebbe nemmeno un cazzo di ciuco dentro a un secchio di latte».