I simboli sono importanti, i simulacri sono una parodia dei simboli. Un po’ la stessa differenza che corre tra autorevolezza e autorità: se non hai la prima non puoi esercitare la seconda. Non Basta tirare in ballo a sproposito uno come Enrico Berlinguer per conferire l’aura del padre della patria a un altro come Giorgio Almirante. La via toponomastica alla gloria è una scorciatoia un po’ grottesca. Quasi esilarante.
Questa storia della via intitolata a Giorgio Almirante, invero, non ha molto a che vedere con la politica in senso stretto, quanto con la cultura dell’Italia di mezzo. Quella un po’ paludosa nella quale si può equivocare o accettare la qualunque, purché sia funzionale a un vantaggio. O presunto tale.
La politica, quella alta, infatti, ha già esaurito da tempo il suo compito. E lo ha fatto nell’immediato dopoguerra quando gente del calibro di Pertini, De Gasperi, Togliatti, Calamandrei e molti altri decisero che anche i fascisti sconfitti dalla storia avrebbero avuto l’opportunità di emanciparsi partecipando alla vita pubblica della neonata Repubblica italiana. Unico, definitivo e lungimirante atto di pacificazione nazionale. Compiuto dai padri costituenti da par loro, graziando i fascisti per quel che avevano fatto all’Italia, e a persone come Antonio Gramsci, i fratelli Rosselli, Piero Gobetti, solo per citare i più noti.
In Francia, ad esempio, la fase post bellica fu moto più cruenta. Con circa 11.000 collaborazionisti passati per le armi in modo sbrigativo, e un altro migliaio dopo un processo.
Giorgio Almirante quindi è stato pienamente legittimato a svolgere il suo ruolo di uomo politico. Nulla da dire, era un suo diritto. Riconosciutogli, a torto o a ragione, nonostante dal 1938 fosse stato segretario di redazione della rivista antisemita “La difesa della Razza”, che giustificò l’invio di 6.000 ebrei italiani nei lager nazisti. E poi dirigente della repubblica di Salò, firmandone il cosiddetto “bando della morte” che, dalle nostre parti, costituì la base giuridica degli eccidi di Maiano Lavacchio e Niccioleta.
Quello che stupisce è invece l’assurzione a eroe nazionale che oggi, nel 2018, per uno come Almirante si vorrebbe promuovere attraverso l’intitolazione di una strada. Oltretutto giustificandola con il fatto che se ne dedicherebbe una a Enrico Berlinguer, con tanto di piazza di congiunzione dedicata alla “pacificazione nazionale”. Trovata assolutamente geniale che, provenisse da altre sponde, denoterebbe un raffinato gusto per l’iperbole.
Legittimazione in che veste? Verrebbe da dire. Perché come politico Giorgio Almirante non è che fosse un campione. A parte il fatto che era un bell’uomo, che era elegante e che parlava bene, come tutti abbiamo sentito dire, non è che sui contenuti abbia lasciato pagine memorabili. Di cui una nazione debba andar fiera. Rappresentò dignitosamente i reduci di Salò. Punto. Con il curriculum vitae che aveva, non poteva fare altro.
La legittimazione cui si agognerebbe oggi per macchinazione toponomastica, dunque, non riguarda il povero Almirante. Ma i suoi inadeguati eredi, orfani di un padre “nobile” da introdurre surrettiziamente nel Pantheon dei padri della Patria. Perché, stringi stringi, il problema di non riconoscersi nelle istituzioni repubblicane è loro. E hanno bisogno di una gratificazione olografica che li aiuti a ingerire l’amaro calice. Non avendo nemmeno il buon gusto di apprezzare il fatto che la vituperata Costituzione antifascista gli ha addirittura consentito di governare le istituzioni repubblicane.
In definitiva, si tratta dell’arretratezza culturale di un ceto politico di risulta, portato dalla piena si direbbe in Maremma. Immaturo, più che altro. Perché cerca una ricompensa simbolica non riuscendo ad immaginarsi come autorevole per quello che riesce a fare. Cosa che – nei diversi piani di lettura di questa vicenda – non ha nulla a che vedere con il successo elettorale. Che evidentemente non basta. La stessa sindrome, mutatis mutandis, di cui soffrono quelli che «fascismo e antifascismo sono categorie del passato»; come destra e sinistra, insomma. Sindrome da immunodeficienza acquisita all’incultura.
In definitiva, quindi, non c’è da preoccuparsi. Se il dazio iconico da pagare è una targa metallica appesa a un palo, che targa sia. Lasciate fare però Enrico Berlinguer e la pacificazione nazionale. Ci vuole altro da un’equazione toponimica per lasciare traccia nei libri di storia, ed esser riconosciuti come padri fondatori.
Giorgio Almirante non può ambire a certi traguardi. E inseguirli per interposta persona non gli fa un buon servizio. I simulacri non possono assurgere al ruolo di simboli unificanti.
Nel mondo multietnico e cosmopolita che ci aspetta, tra qualche anno, “Al Mirante” potrebbe tranquillamente essere scambiato per un matematico arabo del XII secolo. O tutt’al più per un parente stretto di Al Capone. Facciamocene una ragione e passiamo oltre.