Come fosse sospesa a mezz’aria. L’agricoltura maremmana potrebbe essere davvero uno dei motori trainanti dell’economia provinciale, ma l’impressione netta, nonostante numeri lusinghieri, è che non sprigioni l’energia di cui sarebbe capace in potenza.
Se nell’immaginario collettivo quella di Grosseto è una provincia a trazione rurale, rimane difficile misurare l’impatto economico di questa percezione. Perché se guardiamo al valore aggiunto del settore primario in senso stretto, secondo l’elaborazione del centro studi e ricerche della Camera di commercio questo per il 2017 dovrebbe essere stato il 6,4% del Pil provinciale. Un impatto significativo che è tre volte quello del valore aggiunto agricolo sul Pil regionale (2,1%), ma che rimane residuale rispetto a quello dei servizi o dell’industria. Tuttavia, questa percentuale non comprende il valore economico delle attività turistiche collegate al mondo agricolo (agriturismi ad esempio, ma non solo). O quello delle produzioni agroalimentari, cioè dei prodotti trasformati.
Per capire quali potrebbero essere le potenzialità del settore primario e dove stanno i nodi gordiani che ne impediscono il decollo, allora, conviene partire da quella che dovrebbe essere la conclusione del ragionamento. Ovverosia dall’export. La provincia di Grosseto ha una propensione all’export praticamente inesistente. Il nostro tessuto produttivo contribuisce alle esportazioni della Toscana appena per l’1%. Nel 2016 – ultimo dato aggiornato – 323 milioni di euro, dei quali però 148,5 sono riconducibili al comparto manifatturiero agroalimentare, il 46% del totale. Fra l’altro l’export provinciale, che è circa il tre per cento del nostro Pil, è in costante crescita negli ultimi anni, trainato proprio dall’agroalimentare.
Tutto questo per dire che se le produzioni agricole maremmane fossero trasformate in loco in quota maggiore, questo porterebbe grandi benefici economici a tutte le filiere agricole che incrementerebbero il volume delle esportazioni. Le quali, stante la crisi prolungata dei consumi interni, sono quelle più remunerative.
In provincia ci sono esempi di eccellenze agroalimentari oramai consolidate, da Copaim a Corsini Biscotti, da Coo.P.A.M. a Conserve Italia, dal Caseificio sociale di Manciano al Fiorino, fino a Cantina cooperativa dei vignaioli del Morellino di Scansano e Olma. Solo per citarne alcune. Ultima arrivata Sfera società agricola Srl, che a Gavorrano sta investendo 18 milioni di euro per realizzare una serra di 12 ettari destinata alle colture orticole idroponiche: coltivate fuori terra in un substrato inerte e irrigate con soluzioni nutrienti a base di acqua e composti inorganici.
A fronte della folta pattuglia di medie e grandi aziende agroalimentari, talvolta con alle spalle investitori finanziari, c’è però il mare magnum delle piccole aziende agricole – circa 9.000 – e di quelle agroalimentari della trasformazione che stentano a costituirsi in un sistema compatto e agguerrito. Con una frammentazione sinceramente inspiegabile che quasi sempre impedisce di cogliere grandi occasioni. Da questo punto divista, ad esempio, il cosiddetto Distretto rurale d’Europa riconosciuto sul piano formale una ventina di anni fa, non si è mai evoluto in un vero cluster produttivo. Oggi la speranza è affidata al Distretto agroalimentare della Toscana del Sud – una quarantina di Comuni fra le province di Grosseto, Siena e Arezzo – anche perché c’è un gruzzoletto di milioni di incentivi regionali e statali. In itinere anche il percorso per costituire il Distretto del cibo.
Al di là del futuribile, però, appare evidente che il problema di fondo rimane quello di una realtà a metà strada tra innovazione e conservazione. Dove sono ancora molto forti le resistenze ad associarsi rinunciando alle rendite di posizione per stare su un mercato molto competitivo. Ma soprattutto dove resiste una cultura diffidente nei confronti della moderna agricoltura, promotrice dell’idea che il futuro stia in una nuova versione del ”piccolo è bello”. Mercati contadini e filiera corta in effetti hanno dati buoni risultati, ma riguardano solo poche realtà che hanno saputo organizzarsi, con volumi economici marginali. E d’altra parte è impensabile che l’intera produzione agricola provinciale possa essere assorbita da residenti e turisti.
L’agricoltura all’avanguardia, nel frattempo, va in un’altra direzione e il modello vincente è quello di chi riesce ad organizzare l’intera filiera, dalla produzione della materia prima alla trasformazione, fino alla logistica e alla gestione della promozione.
Due esempi concreti che riguardano anche la Maremma, entrambi della filiera zootecnica, aiutano a capire. In provincia di Grosseto ci sono tre allevamenti di suini che fanno parte della filiera del prosciutto di Parma Dop. I maialini svezzati arrivano in provincia dove si svolge la fase del finissaggio fino ai 170 kg – a Manciano ci sono 6.000 animali che sono nutriti anche con la “scotta”, residuo di lavorazione del Pecorino Toscano Dop – poi tornano nel parmense per la macellazione. Infine la preparazione e stagionatura del prosciutto. La filiera è organizzata a monte da chi produce i mangimi. Nell’impianto di trasformazione di Grandi salumifici italiani di Santa Fiora che produce i “Teneroni”, invece, le spalle di maiale arrivano via Tir dall’Olanda o da altre zone d’Italia. Volenti o nolenti questa è la scala dell’agroalimentare moderno organizzato in filiera.
Al di là del caso specifico, la lezione da trarre è che se i prodotti dell’agricoltura fossero trasformati in loco a guadagnarci sarebbero tutti, a partire dai contadini che oggi sono quelli più penalizzati dai prezzi bassi. Prendersela con la grande e media distribuzione, oppure con l’Europa, lascia il tempo che trova. L’unica strategia per non farsi schiacciare e subire prezzi da fame è organizzarsi in filiera e cercare di tenere sotto controllo più passaggi possibili.
In provincia di Grosseto ci sono esperienze imprenditoriali che dimostrano come anche i piccoli produttori – la gran parte delle 9.000 aziende agricole maremmane – possono giocare un ruolo forte nel mercato competitivo e globalizzato di oggi. Esperienze di natura cooperativa che hanno saputo partire da zero e crescere senza perdere la propria identità né rinunciare alla logica mutualistica. Vignaioli del Morellino, Olma, Caseificio di Manciano, Cantina cooperativa di Pitigliano, Consorzio produttori latte Maremma, cooperativa Terre dell’Etruria, Consorzio agrario provinciale. E via discorrendo.
Quello che oggi serve è un ulteriore salto di qualità, con nuovi e più forti processi aggregativi. Perché se vuoi vendere il vino buono, sempre per fare un esempio, devi produrne grandi quantità, devi consegnarle nei tempi previsti attraverso una rete logistica efficiente e devi spendere tanti soldi in promozione. Tutti passaggi prima culturali, poi organizzativi e gestionali. Ma inevitabili se l’obiettivo è quello di creare valore aggiunto ad ogni passaggio per remunerare dignitosamente tutte le componenti della filiera. Che si tratti di zootecnia, cerealicoltura, olivicoltura o viticoltura. Avendo come prospettiva l’ingresso strutturale nei canali della grande e media distribuzione organizzata, in Italia e all’estero. E a proposito di export bisogna prendere atto anche che la qualità dei prodotti associata al brand Maremma non sono sufficienti a garantire la reputazione necessaria a fare la differenza. Ma bisogna che siano associati al brand Toscana.
Un proverbio maremmano dice che «in natura tutto pol’esse’ tranne che l’omo pregno». La Toscana è da secoli terra di campanilismi irriducibili. In Maremma l’esperienza cooperativa ha radici antiche, chissà che proprio dall’agricoltura non arrivi un segnale vero di cambiamento di cultura. Che farebbe bene anche a tanti altri.