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Piazza sopraelevata di palazzo “Cosimini”, sopra il negozio Ovs di via Matteotti a Grosseto. Lunedì scorso verso le 18,30. Un gruppo di adolescenti italiani, con ogni probabilità ubriachi, aggredisce un uomo di 55 anni uscito dal proprio ufficio a redarguirli perché stavano sfasciando una fioriera. L’uomo cade a terra, viene offeso pesantemente e preso a calci. Poi i ragazzotti si dileguano.
In termini giornalistici, il classico “uomo che morde un cane”. Nella gerarchia della notiziabilità il massimo della libidine. Eppure una notizia che non suscita lo scandalo che avrebbe sollevato si fosse trattato di extracomunitari.
Nei mesi scorsi altri adolescenti “deviati” sono stati protagonisti di diverse notizie di cronaca. Botte, episodi di bullismo, devastazioni nel centro storico, una ragazzina ubriaca (?) che cade dalle mura medicee. Insomma il campionario classico del disagio sociale. Che al massimo, con pochissime eccezioni, in città suscita il più ovvio riflesso condizionato: legge e ordine.
La devianza sociale non è un fenomeno nuovo, quindi sconosciuto. A pelle, però, quello che sta velocemente cambiando è la sua pervasività far gli adolescenti e i giovani. Con un aumento esponenziale di episodi attraverso i quali emerge il disagio generazionale che ci sta dietro.
Sorprendente quindi che in così pochi s’interroghino sulle cause profonde e soprattutto sulle possibili strategie per arginare i problemi e recuperare ragazzi e ragazze a comportamenti non patologici.
Una chiave di lettura dell’alternanza del pendolo dell’opinione pubblica tra l’indifferenza, meglio l’assuefazione, e l’approccio autoritario-repressivo (telecamere ovunque) può essere quella dell’imbarazzo conformista a prendere per le corna un fenomeno prevalentemente “italiano”. Che riguarda cioè i “nostri” ragazzi. Relativamente facile e poco dispendioso prendersela con i parcheggiatori abusivi africani, con gli zingari, gli extracomunitari che ciondolano poco rassicuranti in alcune zone della città, con spacciatori di shottini, scippatori e ladruncoli. Molto più complicato analizzare e capire perché adolescenti che potrebbero essere i tuoi figli o i figli dei tuoi amici, magari scolarizzati, si realizzino a sfasciare arredi urbani e vetrine, ubriacarsi e darsi alle risse.
Capire, infatti, significa prima di tutto mettersi in discussione, e chiamare in causa le omissioni che ciascuno di noi può aver consumato nella propria sfera d’azione rispetto alla degenerazione crescente dei comportamenti sociali fra i giovani. L’atteggiamento mentale di chi prova a capire andando oltre gli stereotipi, non a caso, viene spesso bollato come giustificazionismo, lassismo, relativismo o buonismo. Categorie dello spirito, più che razionali approcci sociologici.
Nella maggior parte dei casi si liquida la cosa addossando in modo generico le colpe alla società (scappatoia intramontabile), al crollo dei valori tradizionali, oppure mettendo sul banco degli imputati la famiglia. Non la famiglia come istituzione, sempre evocata rispetto a un archetipo del quale oramai raramente si ha riscontro nel mondo reale, ma la famiglia dei ragazzi devianti. Perché è più facile colpevolizzare i singoli che caricarsi collettivamente di un problema. Oppure mettendo all’indice la scuola, alibi perfetto, e contrario, rispetto all’assunzione di responsabilità individuali.
Forse, però, sono molto più complicate le cose sotto il cielo. E magari le connivenze culturali che fra i giovani assecondano lo strame delle regole di convivenza civile, sono più distribuite di quanto possa apparire. Andando da quelle delle istituzioni pubbliche, in ritirata permanente da qualunque impegno in termini educativi e di prevenzione, con l’alibi esibito della mancanza di risorse a coprire la vacanza d’dee. A quelle dei genitori, che ad esempio danno messaggi distorti ai propri figli difendendoli a prescindere ogni volta che entrano in cortocircuito coi loro insegnanti. Oppure inveendo, fino ad arrivare alle mani, alle partite di calcio alle quali assistono in veste di ultras della propria prole. Fino agli allenatori che troppe volte danno il cattivo esempio contestando gli arbitri o esasperando la competitività fra i ragazzi.
Ci sono poi i messaggi più o meno subliminali veicolati da programmi televisivi che promuovono a eroi pop chi urla e inveisce per affermare il proprio ego. La politica che utilizza l’infotainment per aizzare i peggiori istinti delle persone, esibendoli in contrapposizione al “buonismo”, oramai foglia di fico per ogni nefandezza. Come urlare subito «io sto con lui!» appena qualcuno spara a un ladro. E ancora lungo sarebbe l’elenco.
Tutto questo per dire che, probabilmente, tutti quanti dovremmo porci senza moralismi il problema di come contribuire sul piano individuale e collettivo ad arginare una deriva che ancora nella nostra piccola comunità non è degenerata. Ma che sin troppi esiti drammatici ha già prodotto in altre realtà. Il rischio, altrimenti, è che “l’uomo che morde il cane” diventi la regola e non l’eccezione.