Alzi la mano chi fosse contento di avere un luogo di spaccio sotto casa, persone senza fissa dimora che bivaccano, ragazzi ubriachi, venditori abusivi o mendicanti. Nessuno la alzerebbe, ovviamente.
L’accoppiata degrado/microcriminalità nei centri urbani è tema rovente, che interessa tutti indistintamente. Diventa però divisivo quando si tratta di scegliere come combatterlo. E il microcosmo di Grosseto non fa eccezione.
La risposta più inefficace, anzi pericolosa, è quella dei “vendicatori da tastiera”. Individui che passano le giornate a picchiare sui tasti improperi e frasi aggressive, quasi sempre dai toni xenofobi e razzisti, prendendo a pretesto fatti di cronaca per sfogare le proprie frustrazioni. Fenomeno dilagante e socialmente pernicioso, perché metaforicamente arma i giustizieri fai da te. Che prima o poi fanno la cazzata di aggredire qualcuno in nome della nostra sicurezza (pensassero alla loro farebbero già fin troppo).
Poi c’è l’armamentario, molto ideologico, degli apparati e delle tecnologie per la sicurezza. Si va dall’ossessione per le telecamere, oramai quelle pubbliche svariate decine solo a Grosseto, fino agli spray al peperoncino, i vigili urbani a cavallo, le unità cinofile e, udite udite, il bastone telescopico (tattico difensivo) per tenere a distanza le persone da controllare. Tutti strumenti che, in qualche occasione, possono anche risultare utili, ma sostanzialmente un palliativo rispetto alla dimensione dei problemi. Pochi giorni fa, per dirne una, le telecamere non hanno funzionato da deterrente per un paio di ladri che a volto scoperto hanno scassinato (per la quinta volta) una lavanderia automatica in via Porciatti.
La lotta al degrado e per la sicurezza non è questione ideologica. Il buonismo e il cattivismo, in questo senso, sono categorie dello spirito sostanzialmente ininfluenti sulla realtà.
E allora che fare? Intanto, iniziare a prender atto che fenomeni di degrado sono sempre esistiti, esistono ed esisteranno. Smontando la narrazione falsa e interessata, lo storytelling direbbero gli anglofili, che racconta un’immaginifica età dell’oro. Quando certe cose non succedevano. Per capirsi, Giogio è diventato il barbone “buono” solo dopo che è morto. Oppure, già negli anni ’80 Grosseto era una delle città d’Italia a più alta intensità di spaccio d’eroina, con statistiche da vertice nazionale quanto a rapporto tra residenti e tossicodipendenti. Allora il centro storico era molto più infrequentabile di oggi. C’erano molti più spacciatori per le strade, e non erano né tunisini né marocchini.
Bisogna quindi lasciar correre, sopportare? Manco per niente. Bisogna però capire che i problemi non si risolvono con gli slogan, e in definitiva che non bisogna “confondere il culo con le quarant’ore”. Come suggerisce l’icastico proverbio toscano.
Perché non saranno mai abbastanza le telecamere per coprire ogni anfratto cittadino. I vigili per battere ogni strada. I poliziotti per scoraggiare ogni ladro. Perché, per esempio, sgombrare i barboni da un posto, significa delocalizzarli un po’ più in là. Chi è grossetano i clochard se li ricorda all’ex Foro boario, all’ex Garibaldi, a palazzo Cosimini, alla stazione e in mille altri luoghi. Ogni volta, cacciati da un posto sono trasmigrati in un altro….
E così via. Bonificare un campo di zingari, significa dare il là a uno nuovo da un’altra parte. Cacciare gli spacciatori dalle Mure medicee vuol dire, forse, spostare la centrale dello spaccio al parco di via Giotto, o al parco Ombrone, piuttosto che al piazzale dei circhi.
Insomma, la sola logica della repressione non basta. Non si tratta d’ideologia, ma di dati di fatto. Se bastasse la repressione, per dirne una, gli Stati uniti d’America sarebbero il paradiso terrestre.
Razionalmente parlando soluzioni salvifiche non ce n’è; soluzioni parziali e un po’ più efficaci ci sono. Tipo i dormitori per i senza fissa dimora. Le “stanze del buco” per garantire condizioni igieniche e assistenza ai tossicodipendenti, magari nelle more di una legalizzazione delle droghe che darebbe un colpo esiziale a criminalità organizzata e spicciola. Gli operatori di strada per monitorare, educare e prevenire risse e scontri fra bande. L’educazione al consumo consapevole dell’alcool nei locali pubblici. Le politiche d’inclusione per i nomadi. L’animazione e l’illuminazione dei centri storici, ma anche delle aree degradate e marginali delle città, magari riappropriandosene con la street art e i comitati di quartiere. Solo dopo la repressione dà i suoi frutti.
Soprattutto gioverebbe l’avvento di uno spirito civico diffuso, per cui ogni singolo cittadino si sente responsabile di quel che gli succede intorno, smettendo d’essere indifferente, ignavo o peggio rancoroso e aggressivo. Il cosiddetto “controllo sociale” è l’arma più efficace contro degrado e microcriminalità. Non ci vuole d’esser scienziati per capirlo. Anche se, va detto, impegnarsi (non pensando solo per sé) è faticoso.
Magari la smettessero di rappresentarci tutti sott’assedio di delinquenze varie (e auspicate), la cosa aiuterebbe a ragionare con più lucidità sul da farsi. Oppure di fare distinguo capziosi se la Caritas vuole organizzare meglio il suo centro d’accoglienza, trasferendosi alla cittadella dello studente.
Sennò qualcuno finirà davvero col credere che un po’ di ragazzotti in mimetica e col fucile in mano per le strade siano una soluzione plausibile. E una volta scoperto che non lo è, alzare l’asticella per chiedere l’intervento della cavalleria e poi le autoblindo…