Potrebbe essere un “tasso barbasso” (che è una pianta), invece di una farfallessa di bronzo alta otto metri. Cambierebbe l’iconografia, ma rimarrebbe irrisolto il tema di fondo: perché a Grosseto si vuole “celebrare” l’alluvione a cinquant’anni dall’evento? Il 4 novembre s’appropinqua e urge una risposta.
Delle tante sfaccettature della vicenda, un bel po’ farsesca, inerente la preconizzata statua monumentale di Emilio Isgrò, prima di tutto sarebbe utile capire che cosa come comunità vogliamo ricordare. Perché celebrare l’alluvione in se stessa, si parva licet, sarebbe una discreta minchiata. A meno che anche la riflessione culturale non sia stata presa in ostaggio dalla moda dei disaster movies.
Insomma, forse sarebbe più opportuno ragionare sul significato vero dell’alluvione per i grossetani. Magari verrebbe fuori che vanno messi sotto i riflettori il popolo che reagisce alla disgrazia, oppure i pompieri. O ancora che quest’episodio della nostra storia recente va inquadrato nell’epopea delle bonifiche che hanno provato a domare una natura indomita. E così via. Potremmo anche scoprire che una statua non sarebbe il modo giusto di rappresentare il cinquantennale. Ma il monumento all’alluvione no! E come se ad Amatrice facessero il monumento al terremoto…
Non è una questione di lana caprina. Attiene all’idea che la comunità grossetana ha di sé. Che forse merita una riflessione più articolata dell’illuminazione solitaria del presidente della Fondazione cultura, architetto Chigiotti.
Per questo motivo, fra l’altro, non fa una grinza il ragionamento del direttore di ClarissArte, Mauro Papa, sul valore dell’arte partecipata.
Se così non fosse, alla farfallessa in bronzo sarebbe legittimo anche sostituire d’imperio un papillon di seta blu, direbbe Domenico Modugno. Tanto un’assonanza con l’alluvione si potrebbe trovare comunque.