Il terremoto in Nepal ha sconvolto tutto il mondo. le immagini della gente sotto le macerie, dei bambini che si tengono stretti ha toccato gli animi di molti, tanto che ovunque si stanno mobilitando associazioni di volontariato per raccogliere e portare aiuti ai sopravvissuti.
Solo un mese fa, in quegli stessi luoghi, era stato un nostro appassionato lettore e grande viaggiatore, Simone Pazzaglia. Noi vogliamo riproporre il suo viaggio emozionante in un paese bellissimo.
a cura di Simone Pazzaglia
Questo viaggio per me ha un valore del tutto particolare.
Per prima cosa è la coronazione di un sogno antico, poi viaggio in solitaria e infine metto alla prova capacità fisiche e mentali. Inoltre devo essere concentrato e parlare inglese, cose non proprio scontate.
Prima di partire ho iniziato a documentarmi parlando con amici che hanno migliaia di viaggi e scalate alle spalle come Dario e David. Ho iniziato ad informarmi sul mal di montagna, su come prevenirlo per non incorrere in situazioni pericolose, su cosa poter prendere in caso di sintomi e come accorgermene. Mi sono fatto spiegare come arrivare pronto e preparato, che tipo di allenamento fare e infine mi son fatto dare alcuni contatti di agenzie nepalesi per trovare una guida da portare con me. Per il portatore, tanto richiesto dalla maggior parte dei viaggiatori, ho preferito fare a meno, sarebbe bastato solo non caricare troppo lo zaino.
L’atterraggio all’areoporto di Kathmandù regala subito un paesaggio unico. Ti ritrovi a volare circondato da montagne che sembrano accompagnarti in un cunicolo stretto verso la pista di atterraggio.
Sbrigo le pratiche necessari e la mattina dopo alle 5 ho già la sveglia per iniziare il trekking.
Di Kathmandù mi rimane l’impressione di una città caotica e polverosa ma non ho ancora avuto modo di conoscerla.
La mattina partiamo con un bus super affollato di gente con zaini, valige e ceste di roba da mangiare. È il viaggio più lungo e disagiato che abbia mai fatto in autobus ma è un’esperienza che volevo assolutamente provare.
Le strade per arrivare a Syaprubesi, il nostro punto di partenza alle pendici dell’Himalaya, sono strette, sterrate e piene di buche e ai lati si aprono precipizi da paura…inizio subito a fare i conti con le mie vertigini.
Il viaggio in queste condizioni dura nove ore ma alla fine arriviamo in questo paesino fatto di quattro case e tre hotel, un posto carino e confortevole.
La mattina dopo iniziamo il trekking di buon mattino e già dopo le prime due ore inizio a pensare di aver “leggermente” sottovalutato l’impresa.
È un continuo saliscendi roccioso con il sentiero che si inerpica lungo un fiume. É strano come le gambe abbiano la facoltà di parlare al cervello dicendo cose tipo “non ce la farai mai, è troppo faticoso, guarda quella salita impossibile da arrampicare”.
Il segreto è non pensare, non guardare la lunghezza o la ripidità di un’ascesa e concentrarsi in piccoli passi uno dopo l’altro senza chiedersi quanto tempo è passato.
Per fortuna lungo il tragitto ci sono dei punti di ristoro simili alle nostre baite dove poter riposare e prendere un tè.
L’acqua non basta mai. Continuo a ricaricare borracce con acqua di ruscelli che disinfetto con pillole per non avere problemi.
Camminiamo per circa sette ore e ceniamo a Lama, in una baita, con il solito Daal Bat ovvero piatto unico di riso con verdure e brodo. Da qua possiamo vedere Syaprubesi e sembra davvero lontanissima. Non avrei mai pensato, in un solo giorno, di poter camminare così tanto salendo, per di più, d’un balzo di mille metri.
Anche il secondo giorno di trekking parte con una fatica immensa, non riesco a rompere il fiato, ma dopo alcune ore per fortuna prendo il ritmo e camminiamo senza tanti problemi.
In questi giorni non ho incontrato neppure un italiano e per questo il mio inglese ne ha molto giovato.
In compenso ho conosciuto della bella gente come per esempio un artista iraniano che ha realizzato una scultura in ferro come simbolo di pace tra oriente e occidente.
Un americano che studia la biodiversità nepalese, un diciottenne di Amsterdam che gira solo come me e un maestro di yoga Australiano che non posso fare a meno di guardare quando si siede con naturalezza; io invece, seduto in quel modo, durerei tre minuti.
Qui non c’è linea e connessione, i telefoni si caricano a stento perché tutto va ad energia solare e quindi sono abbastanza isolato per almeno cinque giorni da ora in poi.
Il pensiero che non posso sentire mia moglie e i bambini mi si insinua in testa e questa cosa, come la salita, inizia a rodere dentro e marcisce i pensieri e per questo devo di nuovo cercare di staccare il cervello, bloccare questo cattivo flusso di pensieri e concentrarmi sul paesaggio.
La sera dormiamo un Lodge dove sono l’unico straniero insieme un cuoco, una signora molto vecchia e la mia guida Prachas.
Devo ammettere che si mangia benissimo e le zuppe o i piatti con riso e vegetali sono davvero superbi. Ho rischiato di diventare vegano se non fosse stato per la mia curiosità di voler assaggiare la carne di Yak, una specie di bovino ricoperto da lunghi peli.
La notte a 3500 metri è stata invece un po’ traumatica, la mia stanza era piccolissima e assomigliava a un loculo e chiuso nel sacco a pelo avevo la sensazione di essere dentro a una tomba.
Gli effetti dell’altitudine iniziano a farsi sentire con incubi, apnee notturne e insonnia.
La mattina dopo in ogni caso mi sento piuttosto bene e arriviamo alla nostra meta in anticipo sui tempi, in un piccolo villaggio a 4000 metri.
Intorno solo cime che spero presto di scalare. La cosa che mi piace di più di questi posti è il trovarsi la sera in una stanza con una stufa nel mezzo e alcuni tavolini ai lati. Qui alle 19 è già buio e si passa il tempo leggendo o facendo quattro chiacchiere mentre ci si riscalda. Niente tv, televisione, musica, internet… niente. Mi sento purificato!
La mattina dopo iniziamo l’arrampicata da 3800 circa a 5000 metri. Arrampicarsi tra le rocce, camminare sui picchi in stretti passaggi ricoperti di neve e terra scivolosa è un’esperienza unica. Durante gli ultimi metri, quando finalmente si vedeva la cima, avevo le lacrime agli occhi dall’emozione. Mi stavo commuovendo di fronte alla bellezza di quella natura così dirompente unita allo sforzo fatto per arrivare fin lassù.
Il ritorno lo ripercorriamo in metà tempo, in poco più di un paio di giorni di marcia piuttosto sostenuta. Ho i polpacci a pezzi e anche i piedi sono abbastanza provati, la discesa infatti fa lavorare soprattutto questi muscoli. Adesso ho quattro giorni per riposarmi a Kathmandù ma decido di accettare l’invito della mia guida e di andare con lui al suo villaggio ospite a casa sua. Il viaggio in bus è allucinante, peggio che all’andata, adesso è molto più pieno…
La casa è in mezzo alla campagna, con animali e il tutto è molto spartano.
Il pavimento è fatto di terra e mangiamo l’immancabile riso e verdure seduti per terra, su stuoie.
La famiglia è molto ospitale e di fede induista infatti la casa è addobbata con immagini sacre e festoni colorati. Le mosche qui regnano sovrane ma per fortuna verso sera spariscono.
La sensazione che ti danno queste persone, questa famiglia, è che sia del tutto naturale che tu sia lì insieme a loro.
Mentre me ne sto sdraiato a leggere sotto un porticato si avvicina un ragazzino di undici anni con degli occhi azzurro cielo. Mi dicono che sia l’unico qua intorno ad avere questi occhi.
Mi fa cenno di seguirlo e si trasforma nella mia guida mostrandomi un tempio induista, gli alberi di rododendro, le piante maestose di bamboo, le coltivazioni di riso e mi aiuta a raccogliere fiori che ho colto per tutto il viaggio con l’intento di attaccarli su un quaderno che regalerò a mio figlio.
Una volta rientrati a casa aiuto a tagliare un po’ d’erba che verrà data da mangiare agli animali, in compenso mi offrono latte di bufalo e carne stufata.
La particolarità di questa abitazione è la porta molto bassa e stretta per via del fatto che uno quando entra deve inchinarsi in segno di rispetto. Io non sono molto rispettoso e per questo mi apro la testa al primo tentativo… prima di imparare a inchinarmi come si deve sbatto la testa altre due volte riempiendomi di ammaccature, tagli e bernoccoli.
Alla fine divento rispettoso pure io…
La mattina dopo mi sveglio molto presto, alle 5 sono già in piedi ma in ogni caso le donne sono già al lavoro in mezzo agli animali. Il padrone di casa mi chiama con lui, andiamo a mungere il bufalo e successivamente a vendere il latte al mercato vicino. È stato un giorno particolare e intenso al pari della scalata in vetta.
Nel primo pomeriggio si riparte in bus destinazione Kathmandù.
Trascorro infine gli ultimi tre giorni visitando stupha buddisti e templi induisti nella caotica Kathmandù. Qui sono da solo, la mia guida è infatti ripartita per un altro trekking. Mi trattengo in compere nei mercatini e negozi che affollano ogni via e mi concedo un massaggio piuttosto doloroso che però mi rimette a nuovo.
Nonostante stia tutti i giorni in giro per le vie di Kathmandù la sensazione che mi rimane è quella di una città viva che si muove, che cambia e mi spiazza sempre. Finisco per perdermi di continuo.
Che dire era un viaggio che volevo fare e appena si sono manifestate le condizioni giuste non ho perso tempo. Come dice un detto “un viaggio di mille miglia inizia sempre con un primo passo”.
I sogni, che dire, se ne stanno lì e attendono che prima o poi ci si decida a realizzarli.