GROSSETO – Nel giorno della memoria anche Grosseto ha celebrato il ricordo delle vittime dell’Olocausto con una cerimonia di fronte alle pietre d’inciampo, poste di fronte all’ingresso del municipio. Alla cerimonia erano presenti il prefetto di Grosseto Paola Berardino, il presidente della provincia Francesco Limatola, il presidente del consiglio comunale Fausto Turbanti, il rappresentante della diocesi di Grosseto Monsignor Franco Cencioni, i rappresentanti delle forze dell’ordine e delle forze armate, il presidente dell’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’Età contemporanea Lio Scheggi e Daniela Castiglione in rappresentanza del Comitato Provinciale “Norma Parenti” dell’ANPI.
Le pietre d’inciampo
Le pietre d’inciampo, come si legge su Wikipedia, «sono un’iniziativa dell’artista tedesco Gunter Demnig per depositare, nel tessuto urbanistico e sociale delle città europee, una memoria diffusa dei cittadini deportati nei campi di sterminio nazisti. L’iniziativa, attuata in diversi paesi europei, consiste nell’incorporare, nel selciato stradale delle città, davanti alle ultime abitazioni delle vittime di deportazioni, dei blocchi in pietra ricoperti da una piastra di ottone posta sulla faccia superiore». Tre di queste pietre sono presenti a Grosseto, proprio di fronte al municipio e ricordano tre deportati Albo Bellucci, Giuseppe Scopetani, Italo Ragni.
L’intervento: le parole dell’Anpi
Primo Levi, testimone dell’odio razziale e dell’abisso toccato dall’essere umano nel Novecento, cinquant’anni fa ammoniva tutti noi con queste parole:
“La storia della Deportazione e dei campi di sterminio non può essere separata dalla storia delle tirannidi fasciste in Europa: dai primi incendi delle Camere di Lavoro nell’Italia del 1921, ai roghi di libri sulle piazze della Germania del 1933, alla fiamma nefanda dei crematori di Birkenau, corre un nesso non interrotto. È triste ma doveroso rammentarlo, agli altri ed a noi stessi: il primo esperimento europeo di soffocazione del movimento operaio e di sabotaggio della democrazia è nato in Italia. È il fascismo, scatenato dalla crisi del primo dopoguerra, dal mito della «vittoria mutilata», ed alimentato da antiche miserie e colpe; e dal fascismo nasce un delirio che si estenderà, il culto del’uomo provvidenziale. […] La maggior parte fra noi erano ebrei: ebrei provenienti da tutte le città italiane, ed anche ebrei stranieri, polacchi, ungheresi, jugoslavi, cechi, tedeschi, che nell’Italia fascista, costretta all’antisemitismo dalle leggi di Mussolini, avevano incontrato la benevolenza e la civile ospitalità del popolo italiano. Erano ricchi e poveri, uomini e donne, sani e malati. C’erano bambini fra noi, molti, e c’erano vecchi alle soglie della morte, ma tutti siamo stati caricati come merci sui vagoni, e la nostra sorte, la sorte di chi varcava i cancelli di Auschwitz, è stata la stessa per tutti. Non era mai successo, neppure nei secoli più oscuri, che si sterminassero esseri umani a milioni, come insetti dannosi: che si mandassero a morte i bambini e i moribondi”.
E’ impossibile non avere un sussulto ascoltando la testimonianza di Primo Levi. Il più abominevole dei crimini, per gravità e per dimensione, ovvero il genocidio di milioni di persone innocenti commesso a metà dello scorso secolo nel cuore della civile Europa, dove già da molto tempo gli ideali di libertà, di rispetto dei diritti dell’uomo, di tolleranza, di fratellanza, di democrazia si erano diffusi e venivano proclamati e praticati.
I cancelli di Auschwitz e degli altri campi di smistamento, concentramento e di sterminio si sono spalancati su un abisso oltre ogni immaginazione. Un orrore assoluto, ideato e realizzato in nome di ideologie fondate sul mito della razza, dell’odio, del fanatismo, della prevaricazione che ha finito per inghiottire milioni di ebrei, rom, sinti, omosessuali, dissidenti, disabili ed internati militari con la complicità di migliaia di silenziosi conniventi e la responsabilità diretta di volenterosi carnefici, dei delatori per denaro, per invidia o per conformismo, dei cacciatori di ebrei, degli assassini e degli ideologi del razzismo.
Non c’è torto maggiore che si possa commettere nei confronti della memoria delle vittime che tramutare queste occasioni di dolorosa memoria compiendo superficiali operazioni di negazione o di riduzione delle colpe, personali o collettive.
Non si deve mai dimenticare che il nostro Paese adottò durante il fascismo, in un clima di complessiva indifferenza e con la complicità della casa regnante, le ignobili leggi razziste: il capitolo iniziale del terribile libro dello sterminio che gli appartenenti alla Repubblica di Salò proseguirono con feroce dovizia, collaborando attivamente con il terzo reich di Hitler alla cattura, alla deportazione e persino alle innumerevoli stragi.
Ed ecco, quindi, che le parole scritte da Giorgio Almirante su «La Difesa della razza» di cui era capo redattore assumono i connotati di una netta ammissione di colpa, ignobile e indelebile:
“Il razzismo — ribadiva il gerarca fascista nel 1942, appena un anno prima della sua convinta adesione alla Repubblica Sociale di Mussolini piegata al servizio dell’occupante nazista — ha da essere cibo di tutti e per tutti, se veramente vogliamo che in Italia ci sia, e sia viva in tutti, la coscienza della razza.
Il razzismo nostro deve essere quello del sangue, che scorre nelle mie vene, che io sento rifluire in me, e posso vedere, analizzare e confrontare col sangue degli altri. Il razzismo nostro deve essere quello della carne e dei muscoli; e dello spirito, sì, ma in quanto alberga in questi determinati corpi, i quali vivono in questo determinato Paese; non di uno spirito vagolante tra le ombre incerte d’una tradizione molteplice o di un universalismo fittizio e ingannatore. Altrimenti — proseguiva ancora Giorgio Almirante — finiremo per fare il gioco dei meticci e degli ebrei; degli ebrei che, come hanno potuto in troppi casi cambiar nome e confondersi con noi, così potranno, ancor più facilmente e senza neppure il bisogno di pratiche dispendiose e laboriose, fingere un mutamento di spirito e dirsi più italiani di noi, e simulare di esserlo, e riuscire a passare per tali. Non c’è che un attestato col quale si possa imporre l’altolà al meticciato e all’ebraismo: l’attestato del sangue”.
Parole inequivocabili dell’esponente mai pentito di una ideologia vocata alla morte, alla violenta sopraffazione nel nome della supremazia che si sarebbe esaltata nell’olocausto.
A questi carnefici la comunità delle cittadine e dei cittadini dell’ANPI preferirà sempre, in ogni tempo ed ogni luogo, impegnarsi nel preservare il ricordo dei Giusti che hanno agito in modo eroico, mettendo a rischio la propria vita e senza interesse personale, per salvare anche un singolo essere umano dal genocidio nazifascista della Shoah. Perché chi salva una vita è in grado di salvare il mondo e l’intera umanità.