Qual è la paga minima oraria che ogni lavoratore deve pretendere in busta paga? Bella domanda. Per Partito democratico, Movimento 5 stelle, Alternativa verdi sinistra, Azione e +Europa non si deve mai andare sotto i 9 euro lordi all’ora. In tutte le tipologie di lavoro. Per legge. E sono esclusi gli scatti di anzianità, le mensilità aggiuntive come tredicesima e quattordicesima e le indennità contrattuali fisse e continuative. Ecco perché questi partiti hanno presentato una proposta di legge (martedì in commissione Lavoro alla Camera è previsto il voto decisivo). Un modo per tutelare – secondo i promotori – chi opera dove è più debole il potere contrattuale dei sindacati.
A oggi sono 22 le categorie di lavoratori che restano sotto soglia. Tra queste troviamo florovivaisti, operai agricoli, vigilantes, addetti delle imprese artigiane di pulizia, addetti delle cooperative del settore socio sanitario e chi ha un contratto nei multiservizi o nel tessile e abbigliamento.
La discussione è accesa e il centrodestra, salvo rari casi, osteggia la proposta: «Il salario minimo voluto dalla sinistra è un sistema vetero-socialista che abbassa il salario, distrugge la meritocrazia, livella tutto verso il basso» ha dichiarato di recente il neo segretario di Forza Italia, Antonio Tajani. «La proposta è priva di copertura finanziaria e prevede di avere efficacia dal 15 novembre 2024» insiste Tommaso Foti di Fratelli d’Italia. «Un’idea al momento poco percorribile» per Gian Marco Centinaio della Lega che chiama in ballo i sindacati (che, insinua, potrebbero perdere potere contrattuale) e ne evidenzia possibili malumori di sottofondo.
Ma c’è da dire che sul salario minimo, nelle ultime ore, la premier Giorgia Meloni ha aperto al dialogo nel merito.
Intanto Italia viva di Matteo Renzi ha scelto di non fare fronte comune con il centrosinistra, preferendo mettere sul piatto concrete idee alternative. Il nodo, per i critici, sono anche le forti perplessità riguardo possibili risvolti negativi che l’introduzione del salario minimo potrebbe avere – a loro giudizio – sul piano occupazionale.
Ecco, è in questo quadro che abbiamo chiesto conto delle ragioni degli uni e degli altri. A favore del salario minimo interviene Giacomo Gori, anima del Movimento 5 stelle in Maremma e capogruppo del partito di Giuseppe Conte a Grosseto. Dall’altra parte, contrario alla proposta, porta le sue argomentazioni Stefano Scaramelli, uno dei luogotenenti del partito renziano in Italia e presidente del gruppo regionale di Italia viva in Toscana.
Buona lettura.
Giacomo Gori.
Pensare al salario minimo come fosse un tema che riguarda soltanto il nostro Paese sarebbe un errore; così come sarebbe un errore affiancare questo argomento al solo concetto di libertà in campo economico.
Questa misura porta in sé due aspetti molto importanti: la dignità sociale del lavoratore e il contrasto alle attività commerciali scorrette.
Che l’esigenza di fissare un valore minimo al costo orario sia un fatto ormai ineluttabile lo dice l’Europa, la quale ci ha messo le mani approvando una direttiva che obbliga gli stati a garantire entro il 2024 un livello di vita più dignitoso ai lavoratori. Il tema dunque non è salario minimo sì o salario minimo no, ma semmai come vogliamo attuare questo primo passo in difesa di chi lavora.
Altro nodo importante è la lotta alle attività commerciali scorrette, quelle che applicano il cosiddetto dumping salariale, cioè strategie di delocalizzazione che permettono agli imprenditori di aumentare gli utili d’impresa a scapito dei lavoratori nostrani (e, aggiungerei, del fisco italiano). C’è forse qualcuno favorevole al dumping? Lo dica apertamente e si posizioni in netto contrasto con le politiche europee, le quali mirano a recuperare la remunerabilità del lavoro, a considerare il dumping come principale artefice della distruzione della dignità del lavoro, che penalizza l’imprenditore che paga salari dignitosi, che falsa la concorrenza leale nel mercato unico.
Chi si riempie la bocca di libero mercato, spesso fa finta di non accorgersi che l’attuale mercato è solo apparentemente libero perché viziato da una serie di disparità di condizioni che lo fanno somigliare più a un mercato libero a senso unico dove c’è chi si arricchisce sulle spalle degli altri e lo fa lucrando su disparità e storture spesso create ad hoc.
Tutti vorremmo un mondo ideale con la minima presenza dello Stato, il mercato davvero libero, la meritocrazia e le capacità individuali riconosciute e premiate da buoni redditi, ma almeno fino a oggi, la realtà è molto diversa e provvedimenti come il salario minimo garantito sono una misura necessaria per garantire l’attuazione dell’articolo 36 della Costituzione che indica come «Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa».
La politica, anche quella fatta dal centrodestra e da Italia viva, deve prendere atto che occorre portare rispetto e restituire dignità a oltre tre milioni e mezzo di lavoratrici e lavoratori che ogni mese si ritrovano buste paga da fame. Gente che tra l’altro deve muoversi in un contesto aggravato dal carovita e non ha bisogno di giochetti politici, né prese di posizione ideologiche.
Stefano Scaramelli.
È una questione di merito, invece viene affrontata con verbosità dai promotori e da fede cieca da altri senza ragionare sulla sua validità.
Il problema dei salari bassi non è lo stesso del salario minimo. Il primo riguarda le dinamiche del mercato del lavoro italiano, il salario minimo invece riguarda il sistema di determinazione dei minimi tabellari e la rappresentatività delle parti sociali. Mischiare le due questioni serve sicuramente a raccattare un po’ di consenso, accendere il dibattito intorno a se stessi e provare a trovare un collante identitario per alcuni che hanno bisogno di fare cartello, ma è una strada fallace che non fa bene né ai lavoratori, né ai sindacati. Soprattutto non fa bene all’Italia che ha bisogno di essere credibile, di percorrere percorsi seri e di elaborare riforme concrete, capaci di produrre risultati reali e migliorativi.
Chi porta come esempio la Germania in cui il salario minimo è ben più alto di quello italiano non spiega, o forse non sa, che la differenza dei salari fra Italia e Germania sta nel fatto che i 12,42 euro l’ora rappresentano il 58 per cento del salario mediano, quindi sotto la soglia del 60 per cento stabilita dall’Europa.
Non solo, i tedeschi non hanno un livello di salario minimo fissato dal Parlamento, come alcuni vorrebbero fare in Italia con una partita di gioco d’azzardo. Il valore di 9 euro proposto, rapportato alla retribuzione reale in Italia, corrisponde al 75 per cento del salario mediano, mentre le indicazioni del Parlamento europeo e di tutte le organizzazioni internazionali sono di un salario minimo non superiore al 60 per cento del salario mediano. In altre parole, se il prezzo viene fissato per legge a un livello troppo alto rispetto a quello che mette il più possibile in equilibrio domanda e offerta, non è conveniente domandare lavoro. E se cala la domanda di lavoro a fronte di un eccesso di offerta aumenta la disoccupazione.
La realtà è dunque molto lontana dalle manifestazioni verbose e dagli slogan da ombrellone. Italia Viva ha formulato proposte precise: l’imposta negativa per combattere la povertà lavorativa: per livelli di reddito particolarmente bassi, lo Stato applica un’aliquota negativa (cioè dà soldi, invece di prenderli); la detassazione completa della contrattazione territoriale e aziendale: Stato fuori da ogni pretesa economica quando gli aumenti salariali sono decisi là dove lo scambio tra salari e produttività è più facilmente raggiungibile e dove avviene con più efficienza l’incontro tra capitale e lavoro; e, come terza proposta, la politica d’incentivi alle fusioni tra imprese, specialmente nel caso di piccolissime realtà a bassa specializzazione perché spesso le aziende di dimensioni maggiori pagano ai lavoratori salari più alti.