SACHA NASPINI
“VILLA DEL SEMINARIO”
EDIZIONI E/O, ROMA, 2023, pp. 205
Mentre continua ad imperversare una guerra , che non conosce tregua e che ci tiene in bilico sull’orlo dell’abisso, ricordo la necessità di ribellarsi alle bieche ragioni dei potenti come fanno le donne curde e iraniane per la libertà e la vita. Propongo di parlare di un’altra stagione di guerra, che impose alla parte migliore del popolo italiano di scegliere di ribellarsi alla dittatura fascista.
È l’ultima fatica di un giovane e prolifico autore grossetano, giunto con questa opera al suo tredicesimo romanzo con una certa fortuna attraverso una casa editrice di discreto prestigio. È uno dei relativamente pochi animatori della vita culturale della nostra città, per la verità un poco appartato, per quanto sia presente su scala nazionale e internazionale (la sua nota biografica dice che è tradotto in dodici paesi). Dico relativamente perché per una piccola città di provincia la scena mi sembra più animata negli ultimi tempi. Non ho avuto modo di conoscere da vicino Sasha Naspini. Ci siamo incrociati fugacemente alla Fondazione Bianciardi e questo è il primo suo romanzo che leggo a fondo.
Come genere sembra essere un romanzo storico perché – come dice la quarta di copertina – “evoca fatti realmente accaduti: Grosseto fu l’unica diocesi in Europa ad aver stipulato un regolare contratto d’affitto con un gerarca fascista per la realizzazione di un campo d’internamento. A Roccatederighi, tra il ’43 3 il ’44, nel seminario del vescovo furono rinchiusi un centinaio di ebrei italiani e stranieri destinati ai lager di sterminio. Soprattutto Auschwitz”. Naspini fa una scelta chiara: non narra i fatti, ma li evoca. Questo è onestamente scritto nella nota finale dell’autore. Egli dichiara di aver fatto “una scelta precisa” (ed il tema della scelta è forse il tema centrale del romanzo). La storia racconta dell’istituzione del campo e dello scandalo di un’istituzione religiosa, che si asservisce ad un fine distruttivo di vite umane e che la fa franca, usando spregiudicatamente una sorta di ambiguità del ruolo del Vescovo Galeazzi, nel cui nome – ci informa Naspini prendendo di peso la notizia dalla stampa – “il 10 febbraio 2022 … è stata inaugurata una nuova piazza . A farlo è il sindaco Vivarelli Colonna ricordando “le brutture delle foibe” e “sottolineando l’importanza della dignità della vita umana”. Nel romanzo non troviamo mai una traccia esplicita della deportazione degli ebrei internati a Roccatederichi (“Le Case” nella finzione romanzesca) fino al campo di sterminio di Aushwitz. Essa è solo evocata e rimandata alla responsabilità del lettore di dedurla. Analogamente Galeazzi è dipinto con un’alea ambigua di “santo” e più volte del racconto molti si chiedono se egli sapesse cosa accadeva nel suo seminario a due passi dalla sua residenza.
Possiamo pensare ad una sorta di rispetto per l’intelligenza del lettore, chiamato alle proprie responsabilità. Certo è che Naspini ha scelto – come molti scrittori italiani oggi – un argomento politicamente corretto che sta in un mainstream generale, quello del fascismo come se si cercasse di farvi i conti che abbiamo evitato di trarre per più di 70 anni, mentre domina la scena politica del paese un governo di estrema destra che ambiguamente si richiama a quell’epoca e alla sua retorica. Certo la struttura del romanzo è moderna e i personaggi – soprattutto storici come il vescovo Galeazzi – sono ritratti in maniera ambivalente. Forse meritavano una scelta di campo più chiara come quella che l’autore fa diffusamente nella sua nota fino a stigmatizzare l’abbandono del palco del 25 aprile 2022, favorito – aggiungo io – dall’insipienza degli organizzatori della celebrazione.
La scelta più decisiva di Naspini è di scrivere la storia dal punto di vista di Renè, il ciabattino del paese, il quale è descritto come un “diverso”, menomato in tre dita della mano destra, perse fin da bambino sul tornio e per questo detto “Settebello”. Egli segue un amore che non si concretizza mai, quello per Anna, l’amica che vive al piano sotto al suo e che ha perso il figlio Edoardo, ucciso insieme ai partigiani, dai tedeschi. Anna fronteggia il dolore della perdita andando nei boschi a combattere con i partigiani e Renè la segue, facendosi internare nella villa del seminario nella speranza di incontrarla. Qui scopre che in realtà la donna internata al piano di sopra al suo è in realtà un’altra. I due sono destinati a non incontrarsi mai nel romanzo, solo veniamo a sapere che Renè nel dopoguerra la assisterà durante la morte. Nell’ultima parte del romanzo , la quinta (“Vent’anni dopo”), che lascio alla curiosità del lettore, i molti fili della storia verranno a dipanarsi, mentre l’autore fa i conti con il tema della memoria e denuncia “la malattia della dimenticanza”.
Dalla sua cella di prigioniero dei tedeschi e dei fascisti Renè, quando viene rimesso in condizione di lavorare perché da lui dipendono gli scarponi di tutti, condurrà la “guerra degli scarponi”, che salverà Simone, il soldato della milizia fascista a cui il ciabattino contribuirà a far prendere coscienza.
Indubbiamente la scelta di narrare la storia come “guardata da un ciabattino” è forte e rivendicata coraggiosamente nella lunga nota finale: “E’ stata una scelta precisa, principalmente nel rispetto degli uomini, donne e bambini che nel campo del vescovo ci sono stati davvero”. Dunque una scelta di un punto di vista “dal basso”, che poteva essere meglio sfruttata. Il romanzo si presenta come un romanzo “corale”, come è giusto nel taglio storico del genere , ma la folla di personaggi minori che si agita intorno ai protagonisti sembra in più momenti essere dispersiva e difficile da seguire per il lettore. La scelta dell’autore corrisponde in maniera isomorfa al tema generale della scelta da quale parte stare, che fu centrale per l’intera generazione resistenziale. “Forse Anna stessa, nel decidere di andarsene senza dire niente, in pratica gli aveva sussurrato all’orecchio: ‘Ti aspetto. Scegli tu’” . Con tutta probabilità questo è il significato secondo del romanzo e l’amore incompiuto di Renè per Anna può essere interpretato come una metafora lunga quanto l’intero romanzo (dunque un’allegoria?) di una scelta incompiuta.
Il triangolo, che si crea tra Renè, Anna e Simone, inteso come figlio (insieme ad altri figli che si alternano nella vicenda), sembra abbozzare una situazione edipica, che emerge in maniera contorta e non so quanto consapevole nell’intenzione dell’autore.
Lo stile della scrittura è molto teso con uno sforzo continuo di cercare un’originalità del lessico e della frase, che talvolta cade nel prevalere di espressioni banali da luogo comune (ne ho contate almeno una quindicina). Ciò depone anche per un lavoro di editing un po’ superficiale.
Va segnalato lo svarione della morte del partigiano Mosca, torturato insieme a Renè, e ucciso con “una busta sulla testa”, che risente di tante scene cinematografiche, ma inverosimile per l’epoca dei fatti (infatti l’uso delle buste di plastica risale solo agli anni 60). Nella ricerca quasi spasmodica della chiusa ad effetto di ogni capitolo e di trovate narrative ad ogni piè sospinto traspare la tendenza uniformante delle scuole di scrittura creativa. Vi è anche la curiosità di una cripto citazione nella nota finale: la storia di Renè ‘è ‘nel fitto’ di ‘una questione personale’”. È evidente l’ambizione del paragone con quello che Calvino definì “il romanzo della Resistenza” (“Una questione privata” di Fenoglio), di cui viene ripresa la dizione “nel fitto”. La parte quarta del romanzo, dedicata alla scelta di darsi alla macchia di Renè, è proprio intitolata “nel fitto”. Anche qui siamo all’evocazione perché Fenoglio dice chiaramente che la sua storia non è nel fitto della macchia, ma “nel fitto della guerra civile”, perché la storia del partigiano Milton è sì una questione personale, ma dentro una vicenda collettiva.
Insomma la storia è buona, la sua realizzazione un po’ meno e sarebbe auspicabile una nuova edizione più attenta probabilmente sottratta all’incombere della selezione del Premio Strega a cui il romanzo era candidato. Ma questa è solo la mia ipotesi.