LUIGI PIRANDELLO
“LA GIARA”
MERAVIGLI, MILANO, (1906-1917) 1993, pp. 48
Siamo costretti a vivere una nuova domenica di guerra, a subire la stupidità dei contendenti e la protervia dei potenti nei confronti di due popoli mandati al macello. Con questo non voglio giustificare i popoli, che sono sempre corresponsabili coi loro tiranni. Ribellarsi è possibile: guardiamo l’esempio delle donne curde e iraniane.
Ho riletto queste novelle nella ricerca di un classico di piccole dimensioni, adatto a stimolare la curiosità sulla produzione di un mostro sacro della nostra letteratura, tra quelli più interessanti, reso odioso dalla nostra scuola e purtroppo compromesso con il regime fascista, forse per un’adesione superficiale o forse per una sorta di relativismo delle idee. Per me fu oggetto di parte del mio tema della maturità nel fatidico 1969.
Propongo una breve raccolta di cinque novelle, di epoca ed argomento diverso, tratte dalla serie monumentale a cui Pirandello, premio Nobel per la letteratura (1934), uno dei pochi italiani, dedicò l’intera vita, costruendo una sorta di fondo, da cui trasse temi per le sue opere teatrali e da cui furono tratti anche alcuni film.
Esse fanno parte di una costruzione incompiuta, dal titolo “Novelle per un anno”, che riorganizzava nel 1922, quanto Pirandello aveva scritto fino ad allora e programmava di scrivere in 24 volumi di 15 novelle ciascuna per complessive 360 novelle, quindi una per ogni giorno dell’anno (le 5 mancanti dovevano essere aggiunte). L’opera fu interrotta dalla morte dell’autore, per cui ne furono scritte solo 251, un numero comunque ragguardevole. Un giudizio perentorio e molto lusinghiero è stato dato da Romano Luperini nella sua storia e antologia della letteratura italiana (“La scrittura e l’interpretazione”, 1997), una delle più diffuse nelle scuole italiane: «è, insieme ai racconti di Giovanni Verga e di Federigo Tozzi, uno dei risultati più alti della narrativa italiana dopo l’Unità. Di più: insieme al Decameron di Giovanni Boccaccio, a cui per certi versi si ispira (nel tema temporale e nell’intento di rappresentare realisticamente la commedia umana), è indubbiamente uno dei capolavori della novellistica italiana di tutti i tempi». Il titolo della raccolta richiama il tema dell’inevitabile scorrere del tempo e l’organizzazione delle novelle rimane enigmatica, sembrano affastellate più che organizzate, forse a segnalare l’inevitabile caos della realtà, uno dei temi preferiti da Pirandello.
La presente raccolta comprende novelle tra le più significative dell’intera produzione:
“La giara”, scritta nel 1906, pubblicata nel 1909 e trasposta in un atto unico nel 1916;
“Marsina stretta”, scritta nel 1901, che anticipa il tema dell’umorismo pirandelliano, teorizzato solo successivamente nel 1908), ridotta in un film del 1954; “Nell’albergo è morto un tale”, scritta nel 1917;
“Ciaula scopre la luna”, scritta nel 1907 e pubblicata nel 1912; “La patente” (pp. 40-47), scritta nel 1911 e diventata un atto unico nel 1917. Esse attraversano l’intero arco della produzione novellistica di Pirandello. Esaminiamola brevemente una per una.
“La giara”, una delle prime, è di ambiente agricolo siciliano. Il possidente Don Lollò, sempre pronto a fare causa per un nonnulla, compra una giara smaltata, che si spacca inaspettatamente in due metà. Gli viene consigliato di farla riparare da Zi’ Dimà, artigiano inventore di un mastice miracoloso. Ma Don Lollò ci vuole anche i punti di fil di ferro. Eseguendo l’ordine a malincuore Zi’ Dimà, si imprigiona dentro. Non c’è avvocato che tenga. Infuriato per la festa organizzata dai contadini Don Lollò dà un calcio alla giara che va in frantumi. “E la vinse Zi’ Dimà'”. Lo stile realistico ricorda Verga, ma ci sono già in nuce il tema delle maschere (le convenzioni sociali, in questo caso la fissazione causidica del possidente) e il gusto umoristico per il paradosso.
Sempre di taglio umoristico è “Marsina stretta” dove l’evento casuale di una fastidiosa scucitura dell’abito da cerimonia affittato spinge l’austero professor Gori – all’opposto di Don Lollò – a rompere le convenzioni sociali (il lutto per la morte improvvisa della vecchia madre il giorno delle nozze di una sua allieva povera, avversato dalla famiglia del facoltoso promesso sposo) perché si celebri il matrimonio che salva la ragazza dalla miseria. Manzoni è citato al contrario: “codesto matrimonio s’ha da fare”. C’è un’istanza morale che spinge il professor Gori alla “bella vittoria riportata quel giorno sul destino”. Dunque il famoso relativismo pirandelliano approda ad alcune verità parziali, che hanno un fondamento etico.
Nella più recente “Nell’albergo è morto un tale” troviamo un esempio dell’uso espressionistico della parte per il tutto. Fanno da protagonista le scarpe scalcagnate di un uomo di ritorno dall’America, che rimangono davanti alla sua porta nell’attesa angosciosa della vedova vicina di stanza, la quale vorrebbe sapere da lui cosi esperto dell’Oceano “se è vero che per mare non si soffre”. Emerge con potenza un inconscio simmetrico, ostile e insieme solidale: della morte del poveruomo non importa niente a nessuno se non alla povera vedova.
In “Ciaula scopre la luna” troviamo un’altra caratteristica dello stile pirandelliano, la disarmonia del paesaggio rispetto al personaggio umano. Ciaula è un idiota che lavora come “caruso” di un minatore in una solfatara, un aiutante caricato di zolfo come una bestia da soma. Non ha paura del buio delle gallerie, ma di quello della notte. Una volta per la prosecuzione notturna straordinaria del lavoro si trova ad uscire dal pozzo nella “chiarìa” della luna. Si sente “estasiato” e si mette “a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto”; la luna ignara del mondo, “ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura”. Improvvisamente il mondo si è rovesciato chinandosi a confortare per un momento l’ultimo degli ultimi.
L’ultima delle cinque novelle è piuttosto nota. “La patente” è stata un atto unico portato in scena anche da Eduardo De Filippo. È la storia di una persona con la fama di jettatore, che pretende dal giudice, cioè dalla società, di riconoscere la sua potenza, di poterne fare un mestiere riconosciuto e redditizio. Egli paradossalmente abbraccia la sua maschera, un modo dolente e pessimista di accettare l’iniquità del mondo.
“L’opera insomma è un’allegoria della dissipazione e della varietà della vita, del suo carattere frantumato e insensato, in cui domina incontrastato il flusso distruttivo del tempo” (Luperini).